domenica 12 febbraio 2012

Identità e Narrazione


“Tantissimi hanno conosciuto Gangemi per le sue ultime pubblicazioni. Segno che abbiamo sempre bisogno di qualcuno di autorevole che da fuori ci riconosca per essere riconosciuti autorevoli da noi”.

Forse, tantissimi hanno conosciuto Gangemi, autore de La signora di Ellis Island, piuttosto che Gangemi autore di Un anno in Aspromonte per il “banale”, “pratico” motivo che il primo è edito da Einaudi e, quindi, di relativa facile rintracciabilità in tutte le librerie italiane, anzi, nei primi mesi dall’uscita, collocato in bella evidenza sugli scaffali più visibili, e il secondo è edito da Rubbettino, prestigiosa, ma piccola casa editrice “locale”, con una distribuzione che non raggiunge il territorio nazionale. Anche se la contemporaneità offre nuovi strumenti e, ora, Un anno in Aspromonte, se non lo si trova in libreria, Amazon lo farà recapitare a casa in meno di una settimana.

C’è, insomma, anche un problema di “strumenti” e di “mezzi” culturali che la Calabria – tralasciamo qui la discussione sulle motivazioni – non ha avuto (e non ha). Ciò non toglie che l’affermazione iniziale tratta dall’ultimo intervento di Gioacchino Criaco sul brigante Musolino, o meglio sul rapporto della Calabria col proprio passato – che da qualche settimana si sta svolgendo su Zoomsud – http// www.zoomsud.it – sia ampiamente condivisibile. D’altra parte, chi è che non si riconosce, prima di tutto, nello sguardo degli altri?

“Tu che mi guardi, tu che mi racconti…” titolava anni fa un suo libro la filosofa Adriana Cavarero, per indicare “l’identità” come un processo di “narrazione relazionale”: chi mi guarda esplicita la mia identità, narrando la mia storia.

Se è chiaro a tutti che l’altrui sguardo disattento può rendere incompiuta la narrazione di sé e, quindi, della propria identità (esperienza che la Calabria, non guardata o guardata con indifferenza e/o disamore, ha vissuto ampiamente nei secoli) la Cavarero sottolinea come l’io capace di narrare la sua storia non è che l’altro me stesso che, posto di fronte allo specchio della storia vissuta fino a quel momento, la “vede” e la “narra”, (ri)dandosi così, insieme, “identità” e “narrazione”.

Non possono, quindi, che essere i calabresi a mettersi di fronte allo specchio delle loro storie per raccontare un’identità collettiva. Fatta, come in ogni narrazione che si rispetti, di tante specifiche storie. Per tornare alla Cavarero – ringrazio Criaco che, con il suo intervento, ha riportato la mia mente ad un libro che ho molto amato –: “… è vero che il mio chi è insostituibile, ma la mia esistenza non è una specie di filo senza qualità: io sono una donna con delle qualità, e queste mie qualità sono appunto le mie identità plurali, le mie identità di appartenenza che mi riguardano e che ciascuna o ciascuno di noi ha. Quindi, se la narrazione è storia di vita, è storia di vita che si riferisce all’identità irripetibile di quella vita ossia alla sua unicità, e che nel frattempo narra anche di queste appartenenze. Se restiamo nel campo della letteratura, ebbene: qualsiasi grande romanzo è così strutturato intorno alle identità dei suoi protagonisti. Pensiamo ai grandi romanzi di formazione; in fondo cosa sono essi se non il ritratto di una o più società, ovvero il ritratto di identità precise e storicamente fondate.”

“Io sono una donna…”, anzi “io sono una donna calabrese…”. Se, davvero, non mi pare di poter condividere alcunché, se non, magari, alcuni luoghi e un po’ di dialetto, col calabrese Musolino, nella mia memoria – e anche nell’assenza di memoria – scorrono decine di donne che vorrebbero narrata la loro storia: allevatrici di bachi da seta, gelsominaie a piedi nudi nei campi bagnati, contadine curve a piantare fagioli, sbucciatrici di mandorle, ricamatrici da far impallidire pittori affermati, inventrici di petrali e pignolate, maestre che raggiungevano a dorso di mulo i loro alunni…

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