sabato 24 marzo 2012

Il cortile delle viole e delle farfalle


Anch’io ho dentro un cortile. Anzi, più d’uno.

 C’è la rua separata dalla mia casa dall’unico gradino del tinello e dai tre di una stanza, più lunga che larga, con, quasi sulla porta, una macchina per cucire. Su quei tre bizzola – non avevo ancora tre anni – mi salutò il compagno di giochi, prima di partire. Da sempre conoscevo la parola emigrazione, ma, in quel tramonto quieto, vissi lo sgomento che, di fronte all’immenso oceano, aveva rubato suoni e colori alle vite di nonni e prozii. Gli anziani si fermavano a chiacchierare su una specie di panchina di pietra, addossata alla parete della casa della zia N. e ‘du ‘zi G. – che sboccava, nel lato di sotto, sulla stradina limitata dai roveti che portava alla sena, dove s’andava a prendere l’acqua fresca, con bumbuli e quartare. E‘u zi S., seduto su una sedia di spago, un grande asciugamano sotto il mento, talvolta canticchiando e più spesso imprecando, si faceva fare la barba dalla zia C..

C’è la rua sotto ‘u lastricu (il terrazzo da cui si vedeva l’orizzonte di cielo e mare), dei nonni materni dove, d’estate, per intere settimane, si sbucciavano mandorle e si preparavano bottiglie di pomodori, davanti al grande stanzone dal pavimento grezzo, con su un lato, le maille e le tavole per impastare il pane, e dall’altro, le grandi giare dell’olio, con sopra i cafizi untuosi e scintillanti – sono cresciuta a pane di grano caldo con l’olio. Meglio: pane col buco con l’olio, ovvero, tagliato il cozzetto del biscotto, si toglieva la mollica, si colmava di olio, si rimetteva la mollica: delizia pura. Più in là, i salaturi con i curcuci, le olive, le giardiniere e le cannizze con i fichi seccati e, appese alle travi del tetto, le schiocche di pere.

E c’è la rua tra la casa dei nonni e il magazzino con il fieno per gli animali, con davanti il forno dove mi infilavo a prendere le briciole cadute delle fricie e dei biscotti. La nonna si sedeva a scocciuliari (sgranare) fagioli o filava lana grezza e il nonno preparava il braciere in cui quelle stesse calze faceva bruciare, scafuliando il fuoco col calcagno. Una striscia di terra costeggiava un piccolo orto – dall’altro lato c’erano le vasche dell’acqua (quando, finalmente, arrivò), con alcuni banani i cui frutti rimanevano sempre verdi, immaturi – fino alla stalla con le mucche, i vitellini e l’asino e al trappito (frantoio), dove un giorno, fiera di tanto avere, portai un’unica oliva zunzufarica perché la macinassero. E, dal lato opposto, una macina di legumi in pietra, che già non s’usava più.

(Se, al tramonto, tornavo – pochi passi – dalla casa dei nonni alla mia, fino a metà chiamavo “Nonna” e per l’altra metà “Mamma” e la loro voce quietava il battito più accelerato del cuore. Una sola volta, portando la sua schiocca di pere, profumate e belle, non chiamai nessuna delle due, come avessi in mano la melagrana del ritorno di Persefone/Kore).

E c’è il cortile. Piccolo e interno. Chiuso, da due lati, dalla stanza dai tre gradini e da quelle del tinello e della camera da letto dei genitori e dal cortile su cui s’affacciava la cucina di zio S. e della zia C.. Il terzo lato era occupato dal pollaio, dietro cui si estendeva la proprietà di lontani cugini e il quarto era un bergamotteto, che una spessa rete metallica indicava come di altri.

 Non era un cortile assolato. Il sole, anzi, aveva un retrogusto umido e muscoso. La solitudine, inquieta di fruscii lontani e incantata del mutevole trascorrere della luce, s’innervava di stupori e turbamenti. Aspettavo per ore che le galline facessero le uova per poterle raccogliere.

Raccogliere, mi piaceva. Raccolsi l’intero prato di viole del pensiero e ne ebbi una sgridata che mi bastò ad interiorizzare il principio che ci stanno cose che “si guardano, ma non si toccano, così dice mamma Rocca”. Continuò a raccogliere farfalle. C’erano decine e decine di cavolaie. Le prendevo con una retina, le mettevo in un paniere di vimini ricoperto da un po’ di vecchio tulle. Poi, le lasciavo volare: felice di quella bellezza che s’allontanava.

Nulla di tutto ciò è rimasto. Eppure. Perché ognuno appartiene a luoghi che lui solo sa.

A Marina Valensise che nel suo recente “Il sole sorge a Sud” (Recensione "Il sole sorge a Sud)  ha parlato (anche) del cortile assolato della sua infanzia calabrese.

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