domenica 6 maggio 2012

MaliNati di Angela Bubba




«I treni che dalla stazione Termini portano in Calabria vanno quasi sempre dal binario numero 10 a quelli numero 15, e sono rumorosi e felici, pieni di calabresi. Non appena agganciano le scalette loro diventano subito festanti, luminosi, come se a un tratto partecipassero anch’essi al grande fidanzamento della vita. Perché quando si parte verso la Calabria si prova questo, si fa ritorno nel luogo della grande morte e della grande vita».

Ogni volta che sale sul treno che da Roma, dove studia all’Università, la riporta in Calabria «nel posto della sospensione », dove le cose rimangono «interrotte a uno zero liquido e centrale, implose fra un meridiano e l’altro», « l’unica vera isola italiana, il sud del Sud», Angela Bubba rilegge queste righe di Alvaro: “Tu devi imparare a sopportare. Tu non potrai rimanere sempre con me e con tuo padre. Tu devi fare la tua strada. Tu devi uscire da questo paese. Tu non ci puoi rimanere. Troverai dove andare, dove tu stia meglio e più libero. Ma questo paese lo devi abbandonare. È la tua sorte”.

Alla signora che, seduta di fronte a lei, rimane un giorno sconcertata da tanta “cattiveria”, risponde: «Non è esattamente cattiveria. Ah no? No, signora. E che cos’è allora? Attesi circa un minuto prima di risponderle, avere infatti le parole già pronte non significa sempre poterle utilizzare. O almeno, non subito. Quelle parole erano ancora troppo giovani per me, dovevano essere accudite Cos’è? Lei me lo chiedeva un’altra volta. Non è cattiveria, signora…Parlavo senza guardarla. Non è cattiveria, ma disperazione. È nascere e crescere in Calabria».

E’ la ferita sanguinante della diversità dell’essere calabresi, per una sorta di atavica abitudine a riconoscersi figli di un dio minore, che attraversa MaliNati, secondo libro, dopo il successo de La casa, della giovanissima Angela Bubba (nella foto) appena pubblicato da Bompiani: «Crescere, studiare, amare qualcuno o qualcosa, qualsiasi cosa, sempre col rimorso di non appartenerle davvero, di viverla come vivi te stessa: un tentativo, un imbarazzo sopravvissuto. Alla prima oscillazione esploderai e non ce la farai, il ghigno appollaiato sulla scapola risorgerà e ti metterà in guardia. Tu non ne sei degna, ti dirà, perché non hai simmetria. Perché fra te e il mondo si è intromessa una faglia, un fragore marginale e dunque devastante, che te ne separa proprio quando ti pare di stringerla e dire: è mia! Mentre non lo è invece, controlli le mani ma nulla. Solo interferenza, spettacolo della nevrosi, prosa. Le parole e il desiderio di carcerarle dentro una pagina a qualunque costo. L’unico miracolo familiare, la sola innocenza». E ancora: «Sentirti una carenza e un’inutilità, una cosa fatta apposta per stare in Calabria, un rifiuto meravigliosamente adatto alla propria discarica, sì, come dirtelo, Angela? Sei nel posto giusto al momento giusto, sei in Calabria…».

« … non mi sento libera e non mi sento viva. Ho ventidue anni, sono calabrese e non sono viva. Chi devo rimproverare? C’entro io, la mia regione, la mia nazione, la storia?». Da queste domande nasce un racconto – reportage suddiviso in capitoli, non del tutto omogenei, ma di fiammeggiante forza espressiva.




La rivolta di Rosarno, la ricerca della fabbrica invisibile Soteco, la camminata per le strade di Crotone, la conversazione con la madre di Federica Monteleone sono altrettanti segmenti di un unico, sincero fino alla spietatezza, corpo a corpo tra tra le domande che affollano la mente dell’autrice e una realtà «falsamente immobile» contrassegnata dalla nebulosità della disinformazione : «…le parole valgono almeno quanto il sangue e non ne se versa mai una goccia in più. Una parafrasi antropologica che sta per risparmio, sopravvivenza, investimento per il futuro: serviti solo dell’essenziale, anzi anche di meno, meno lo vedi il sangue e più stai bene, vuol dire questo. Non sprecare e dunque non parlare. Inutile in ogni caso, se oltre il confine dicono di sapere tutto di noi, se le parole che non pronunciamo sono gli altri a pronunciarle al nostro posto».

Un corpo a corpo che si allarga, nelle pagine “romane” – dedicate alla nutrita presenza calabrese nella capitale e alle problematiche universitarie – alla realtà complessiva dei giovani italiani, traditi da una politica che, incapace di aprire prospettive di futuro, li ha derubati anche dell’entusiasmo di vivere. «Da ventiduenne, è questo quello che sento di essere insieme a molti altri. Argilla viva ma sprecata, non rispettata. Cos’è il rispetto, per un giovane italiano di oggi? »

MaliNati è un libro non facilmente catalogabile. Non è un romanzo e non è neppure un saggio. E’ rabbia, urlo, riflessione, scoramento, disperazione, invettiva, lacerazione; umori personali e dramma dell’ “evanescenza” di un’intera regione; malessere autobiografico e, in certe parti, manifesto generazionale. Un morantiano denudamento dell’anima, da cui emerge la voglia di incidere vecchi bubboni – «I nostri problemi non si affrontano e non si bruciano, si chiudono. Li ripongono tutti in un miracoloso cassettone sospeso fra un mondo e l’altro, lasciandoli lì a macerare come tanti anni terrestri, tantissimi occhi etilici. Gli occhi hanno a disposizione un solo foro attraverso il quale guardare, rivolto non verso gli uomini ma in alto, non possono ricattarci in questo modo» – provando a «rispondere, in un territorio di silenzio e guerra come questo».

Come già ne La casa, la cifra stilistica della Bubba, che conferma potenzialità di scrittura non comuni,  sta in una lingua ricca e mobile, inventiva e di solido spessore letterario, spesso articolata in metafore e capace di rendere, anche con l’uso, parco, di neologismi e un’accorta italianizzazione di termini dialettali, la violenza bruciante, magmatica, delle emozioni: «…è il momento di combattere attraverso le parole. Ritornare a parlare attraverso le parole».




Su Zoomsud sono stati pubblicati anche La Calabria e il Qualunquismo http://www.zoomsud.it/commenti/32290-la-calabria-e-il-qualunquismo.html 




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