venerdì 8 giugno 2012

194


Al referendum del 1981, mi parve che la legge 194 andasse mantenuta perché poteva contribuire a rendere l’aborto un fenomeno residuale e favorire, grazie alla piena applicazione della prima parte del provvedimento, una maternità più consapevole.

Oggi non mi sento di schierarmi tra i difensori (per le amiche che esigono il passaggio al femminile di tutti i termini, qual è quello di difensori?) della norma che chiamano alle armi per la battaglia di libertà di contro alle richieste, talora tanto più fastidiose quanto più subdole, di revisione, da cui mi tengo ugualmente lontana.

E’ molto triste che, dopo più di trenta anni, di aborto si continui a parlare come di un diritto e non, più sensatamente, di un dramma: dramma che la coscienza individuale può considerare, più o meno giustamente, inevitabile, ma che resta, appunto, dramma.

Ho più di un dubbio sul fatto che l’aborto interpretato come diritto civile sia un fattore di libertà delle donne e non piuttosto di debolezza: segno di una deresponsabilizzazione delle donne e, ancora più, degli uomini.

Mi chiedo, anzi, talora, se lo stesso uso massiccio del termine contraccezione non abbia in questi anni fatto male alle donne (e, di conseguenza, agli uomini e alla società nel suo complesso). Non mi riferisco alla realtà/necessità/scelta del controllo delle nascite (elemento, tra l’altro, che ridurrebbe l’aborto che – contro lettera e spirito della 194 – si configura anche come sistema di contraccezione a posteriori e selezione genetica dei nascituri), ma proprio al termine che dà valenza negativa alla concezione. Ovvero a qualcosa che, se non esaurisce, certo è nella natura dell’essere donna, anzi nella realtà stessa della vita. Che andrebbe non attaccata, ma difesa e valorizzata.

Nessun commento:

Posta un commento