domenica 29 luglio 2012

Rosalba, splendida "cattiva ragazza" di Calabria



Come sono belle le "cattive ragazze" di Calabria.



Rosalba Forciniti, cosentina, bronzo nel judo, oggi a Londra.




sabato 28 luglio 2012

L'orgoglio inglese (senza Europa)


Italiana. Perché la lingua che parlo, quella in cui scrivo, e, soprattutto, quella in cui penso è l’Italiano.

Che non è stato la mia prima lingua; lo è diventato, e con una certa fatica, durante i primi anni di scuola elementare, quando ho imparato a tradurre nelle sue forme la grammatica e la sintassi dialettali dell’infanzia, cui torno naturalmente quando situazione e compagnia mi portano al reggino.

In questa mia identità italiana – a sfumatura calabra – s’innesta un’altra identità, quella europea, dove non è la lingua l’elemento primo, (non conosco nessuna lingua moderna al pari di quella italiana e neppure del dialetto reggino), ma la compartecipazione ad una comune storia, un comune destino.

Nella notte olimpica, la Gran Bretagna si è presentata al mondo, con l’orgoglio di chi considera grande il suo passato e pieno di speranza il suo futuro: nazione del mondo e isola felice, senza particolari relazioni all’Europa.

Nulla di nuovo sotto le stelle. Eppure: che peccato.

giovedì 26 luglio 2012

Se l'Europa tracolla (prima di nascere)


Resterà a consolare
qualche rado oleandro
o un melograno
tra la campagna e il mare
o, magari, solo nella mente

(oltre l’autodistruzione
d’una storia che dovrebbe
avere ben altro futuro)



Il pezzo che segue è stato pubblicato su Zoomsud col titolo I fichi dell'ultima estate d'Europa. O della prima http://www.zoomsud.it/commenti/37001-i-fichi-dellultima-estate-deuropa-o-della-prima.html

Sant’Anna fica ‘ca canna. Quest’anno, no. Il 26 luglio, non ci saranno cestini di fichi
sulle tavole reggine: in campagna, sugli alberi, sono ancora niente più che minuscole palline.

Quasi un simbolo di un’estate anomala che, più che un’esplosione di odori e colori, sembra sospesa tra un’agonia certa e un agone incerto.

Un qualcosa nell’aria che le pur permanenti tracce di normalità – chi porta i bambini a mare (vicino il più possibile a casa per via della benzina); chi fa la spesa al supermercato (i pochissimi, nel reggino, sopravvissuti alle numerose chiusure); chi decide di sposarsi (chissà dove trova il coraggio); chi si lamenta dei problemi del lavoro e/o soprattutto della mancanza del lavoro; chi si consola con un gelato o la bellezza d’un oleandro – non riescono a controbilanciare.

Perché tutti, in fondo, sanno che l’Europa – quella in cui siamo nati e vissuti; che abbiamo contribuito a far diventare così e che ha determinato il nostro essere così – ammesso che non sia già spirata, sta morendo e che, a settembre, nulla sarà più come prima. Ma non tutti sono in grado, anche solo nel desiderio, di compiere il salto che il particolare momento impone: lavorare, pensare, scegliere perché nonostante, eppure, tuttavia un settembre ci sia: nuovo.

Il futuro della Calabria, com’è ovvio, si gioca “dentro” il futuro dell’Italia e quello dell’Italia nel futuro d’Europa. Perché la crisi drammatica che attraversiamo diventi opportunità di nuova storia, la Calabria ha bisogno di molte teste pensanti dotate di uno sguardo profondo e ampio.

mercoledì 25 luglio 2012

Galiziella, guerriera d'Aspromonte


C’è una donna guerriera nella storia letteraria di Reggio.

“Udendo Galizella come Ricieri da Risa era tanto franco barone, diliberò in sé medesima e disse: «Io voglio combatere con questo barone, poi ch’egli è cossì gagliardo e franco ch’egli abatte quanti cavalieri gli vengono inazi; ché, s’egli abate me, ch’io lo torò per mio marito e signore; s’io abato lui, Agolante mio padre e Almonte mio fratello mi porano amore e sarò in grande trionfo co loro e colla reina e sarò i’ numinanza per tutto il mondo e paserò in Francia, abaterò e vincerò tutti i baroni di Carlo Magno»” (Rambaldo, cap. III)

Il personaggio di Galiziella appare nelle rielaborazioni in italiano, quali i Cantari d’Aspramonte e l’Aspramonte in prosa di Andrea da Barberino, della francese Chanson d’Aspremont, che ha per tema la guerra provocata dall’invasione della Calabria da parte del re saraceno Agolante e di suo figlio Almonte, provenienti dall’Africa del nord.

Figlia del re saraceno, Galiziella combatte travestita da uomo contro il secondogenito del barone di Reggio ed essendone stata sconfitta, lietamente lo sposa: «Dammi parola, padre, per tu’ onore, / che ss’io truovo uomo di me più possente / il qual m’abatta per suo gran valore / in piana terra del destriere corrente, / ched io il prenda per marito e signore». / Ed e’ rispuose: «Va sicuramente, / ch’al tuo volere sia ciò che tu vuogli: / [che] chi t’abbatte sicuramente il togli». (Cantari VI, 13)

Caduta Risa in mano ai Saraceni per il tradimento del fratello di Riccieri, Galiziella muore, ma non senza lasciare degli eredi. Fu Tito Vespasiano Strozzi, zio di Matteo Maria Boiardo a fare di suo figlio quel Ruggiero, leggendario progenitore degli Estensi, cui venne in seguito attribuita anche una sorella gemella, Marfisa.

Galiziella entra così, indirettamente, nell’Orlando Innamorato e nel Furioso, anche per un particolare tutt’altro che trascurabile. Era stata lei, nel corso di un torneo, a vincere la spada Durlindana, poi conquistata da Orlando.

Per chi vuole saperne di più, Giovane donna in mezzo 'l campo apparse”. Figure di donne guerriere nella tradizione letteraria occidentale di Cecilia Latella:

Pubblicato su Zoomsud col titolo Galiziella, guerriera d'Aspromonte  http://www.zoomsud.it/commenti/36878-galiziella-guerriera-daspromonte.html

domenica 22 luglio 2012

60, quasi


Come un tuorlo d’uovo
nella morbida elasticità
dell’albume -
la quieta luminosità d’un attimo
mentre la vita svolta.

giovedì 19 luglio 2012

Carrubi


Non ho mai piantato nulla più che prezzemolo e basilico, rosmarino e salvia, maggiorana e timo; qualche pianta grassa; magari un gelsomino da balcone. Ma non vorrei lasciare questa terra senza aver piantato un albero.

Potrei piantare un mandorlo, o un bergamotto o un olivo, alberi che hanno radici profonde nel mio paesaggio interiore: verdi sistole e diastole dal mio primo all’ultimo respiro.

Ma, ora, è il carrubo che si diffonde, maestoso, nella mia mente, sulla scia di venti diversi, lievi fin quasi all’impercettibilità, e che, pure, mutano l’aria:

il figliuol prodigo del Vangelo di Luca – Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e… – immagine d’ogni possibile svolta esistenziale, di tutte le strade interrotte e riprese, d’ogni umano cammino;

mia nonna che preparava cataplasmi e decotti, bollendo scorze d’arance, uva passita, prugne, ciliegie secche, e carrube dolciastre;

le candeline dei miei dieci anni soffiate in una calabra via Carrubara (com’erano belli quei nomi di vie, di luoghi, legati alle piante: via Filici, ‘u Lintiscu, ‘u Liandru);

alcuni versi: il D’Annunzio dell’Alcyone – Settembre, son mature le carrube – più del Quasimodo del Lamento per il Sud – le cantilene dei carri lungo le strade/ dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie;

l’allegria bambina che mi prese quando, lontano dalla Calabria, in una boutique della frutta, mi trovai di fronte una sporta di quei baccelli simili a fave secche ma dal sapore di miele.

Ma il motivo più vero è un altro.

La pianta del carrubo, mi dicono, ci mette venti anni a “formarsi” e altri dieci a “incrementarsi”, (anche se poi ha un bel periodo di “maturità”, dai trenta ai duecento anni, e la sua fase di decadenza può essere piuttosto lunga, fino a settecento anni). Quindi, avrei ben scarse possibilità di vederne i frutti.

Sarebbe un gesto gratuito, di quelli che, nei periodi in cui al futuro si fa più fatica a crederci, ripetono che – nonostante, eppure, tuttavia – bisogna guardare avanti.
L’immagine è tratta dalla pagina fb del gruppo Amo la cucina calabrese di Rina Scalise

Pubblicato su Zoomsud col titolo Modesta proposta anticrisi: piantare carrubi

martedì 17 luglio 2012

Santi, lavoro e vacanze


Il Consiglio regionale della Calabria ha votato oggi all’unanimità contro la soppressione di due sue Province, prevista da un decreto governativo in via di approvazione. E c’è stata, sempre oggi, un’ampia levata di scudi a destra e a manca contro l’ipotesi di accorpare le feste patronali alle domeniche.


Ha dello sbalorditivo, (e del tragico) in un contesto che richied(erebb)e un cambiamento di stile di vita del Paese (in queste stesse ore si parla a chiare lettere di un possibile “fallimento” della Sicilia), l’ancoraggio, su tanti e diversi versanti, all’esistente.

Esclusion fatta (forse) per i patronati riferiti, con vari titoli, alla Madonna, ampiamente venerata in molte località italiane – Cu terremoti, cu guerri e cu paci/sta festa si fici, sta festa si faci: così, per esempio si dice di FestaMadonna, dedicata alla Madonna della Consolazione, protettrice di Reggio (processione molto partecipata e tonnellate di panini ‘cu satizzu) – mi chiedo quanti siano i santi patroni il cui onomastico richiami in chiesa, a sentir messa e ricevere i sacramenti oppure, semplicemente, spinga ad un sussulto di identità che li faccia riconoscere come parte di una specifica comunità, i (con)cittadini che li onorano… non andando a scuola e facendo (mezza)vacanza dal lavoro.




domenica 15 luglio 2012

Il Parco, da settembre



Con l’apertura del Sentiero di Omero e l’inaugurazione del Simposio di Nisida, si è conclusa la prima tappa di Nisida come Parco Letterario e Naturale un percorso che fa ora parte del progetto Miur LeAli al futuro e che, sul piano personale, mi sta impegnando fin dall’anno scolastico 2005-2006.

Ora, dopo la pubblicazione (Guida editore, fuori commercio) di una Trilogia (cui hanno collaborato una ventina di scrittori) – Racconti per Nisida, Racconti per Nisida e l’Unità d’Italia, Racconti per Nisida, isola d’Europa – dal prossimo settembre proveremo, in classe, insieme ad una decina di autori a fare un importante passo avanti.

Dai racconti per il luogo che ci ospita ai racconti degli ospiti di questo spazio/tempo così particolare: dal lessico dell’isola alla grammatica dei ragazzi di Nisida


 

Le foto di Ciro Orlandini

sabato 14 luglio 2012

Passeggiata a Capo d'Armi


Il giorno del battesimo la sorprese, improvviso. Aveva avuto tutto il tempo per prepararsi. Era uscita un mese prima con la madre a comprare un vestitino di lino blu con la passamaneria di pizzo bianco e uno scollo rettangolare che le donava molto e un giacchino anch’esso blu di svelta eleganza per la cerimonia e, come regalo, una catenina d’oro di buon peso, con una croce stilizzata. Era stata pure, la sera prima, dalla parrucchiera, che le aveva sfoltito i lunghi capelli castani, dandole un’aria più fresca e quasi sbarazzina. Ma non era pronta. Provava a lasciar passare le ore occupandosi di tante piccole cose che le svuotassero la mente, ma sentiva salirle dalle viscere un’ansia cupa e uno spavento da scappare lontano, ad occhi chiusi.

Paola e Giusy s’erano offerte di accompagnarla in chiesa. La silenziosa penombra in cui entrarono si faceva confusione e rumore ai primi banchi, dove si stavano radunando gli invitati, le donne con grandi ventagli a rinfrescare scollature generose oltre il caldo torrido di luglio, gli uomini con giacche sbottonate.

Pallida e con lo sguardo perso di chi sta per perdere il controllo sul pensiero e sul respiro, Letizia si chiese che cosa ci facesse lì, tra tutti quei fiori, il coro che cominciava a provare i canti e la Madonna sull’altare, dal manto rossiccio sulla veste blu, che le si confondeva in strane macchie vorticanti. Ma sorrise quando arrivarono Piero e Anna con tra braccia Francesco, che, in un candido completino da marinaretto, si guardava intorno con tranquilla curiosità.

Che Letizia dovesse essere la madrina di Francesco – per padrino era stato scelto l’unico zio maschio – nessuno ne dubitava. Compresa lei. Piero e Anna erano stati i migliori amici del suo fidanzato e al primogenito avevano dato il suo nome.

Lei e Francesco si sarebbero dovuti sposare, due mesi e tre giorni dopo l’incidente in cui lui era morto e questa nuova vita che portava il suo nome non poteva farle che bene. Si sarebbe commossa di quella malinconia che, dopo le lacrime, dà allo sguardo una rinnovata serenità. Così pensavano tutti. Anche lei. Ma, durante tutto il rito, dietro il pallido sorriso cui aveva costretto il volto, la sommossero onde di maremoto nuovo. Una rabbia schiumante che avrebbe sommerso tutto e tutti in quella chiesa. Un’invidia dei vivi, che sembravano così contenti di starci nel mondo e, ancora più, un’invidia dei morti, che né il sole né la pioggia poteva più toccare: lei che non era né viva né morta. E, più ancora, una livida insofferenza non della felicità di Piero e Anna, ma del loro affetto, della loro vicinanza: come sarebbe stato più facile se la loro scortesia, l’indifferenza, una parola o un gesto sbagliato le consentisse di andare via. Più volte ne provò la sensazione, ma non svenne.

Alla cena, in un ristorante sul mare – il brecciolino crocchiava sotto i piedi nel cortile circondato da una staccionata fatta di canne e c’era, lontano, l’odore dolciastro di qualche residua siepe d’erba fetera –Letizia non toccò quasi cibo e non disse che qualche monosillabo, ma mantenne il suo pallido sorriso. Tornò a casa tardi. La madre, che l’aspettava con la credibile scusa di un’insonnia da caldo, le avrebbe volentieri dato parola. Lei disse che aveva sonno e si ritirò in camera. Il piccolo specchio sul comodino le restituì un volto stanco, la pelle tirata, gli occhi piccoli e arrossati, i capelli intristiti. Accese il computer e fece scorrere un centinaio di foto. Poi tirò fuori dal comodino un’agenda su cui aveva annotato gli sms più affettuosi o divertenti e cominciò a leggere, anche se la vista le si appannava di lacrime.

Per quasi tre anni, s’era portata in giro un peso che nessuno conosceva, avendolo lei stessa fin da subito nascosto a se stessa. Quella sera, tornando da una passeggiata verso Capo d’Armi – la luna piena si rifletteva nell’acqua immobile come lo strascico di seta d’una sposa danzante – avevano litigato. Lei aveva detto che c’era tanto tempo per pensare a un figlio. Lui che di figli ne voleva almeno tre.

S’erano lasciati, davanti a casa di lei, imbronciati e nervosi. Letizia s’era andata a fare una doccia rilassante in una schiuma setosa. Lui era andato a sbattere contro una moto che gli aveva tagliato la strada ad uno degli svincoli della statale jonica.

Nelle tempie, in gola, nello stomaco, nell’incavo delle braccia e dove le gambe diventano piedi, le rimbombava qualcosa per cui non trovava parole: un senso di definitività di ciò che era stato. Che fosse anche o solo colpa sua, lui non sarebbe tornato: mai più.
Il piccolo Francesco non portava il suo nome. Aveva un altro nome. Col tempo, avrebbe imparato a pronunciarlo come un nome normale.

Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/36238-racconti-destate-un-nome-qualsiasi.html col titolo Racconti d'estate: Passeggiata a Capo d'Armi.

venerdì 13 luglio 2012

Cecità prossima ventura


La malinconia feroce dell’alba quando i titoli dei giornali online ti centrifugano in un presente minaccioso – prodromo di un futuro nero-pece come una terribile cecità che per sempre ti precludesse cielo e mare.

Tu osservi con devota stima chi prova le strade dell’impervia risalita – quelli che si ergono a difesa di Termopili – ogni tuo respiro è con loro, ma le vedi le schiere avanzanti degli Efialte e sai che i Medi finiranno col passare.


L’unica cosa che vorresti è piangere fino a dissolvere nelle lacrime l’angoscia. Ma la lista dei doveri del giorno sta appuntata in un post-it alla tua sinistra e cominci dal primo.


“Abitare la cecità” – Qui il passato non è dimenticanza,/ ma docile danza d’un domani/ che esiste ma non s’avvererà – esige un duro apprendistato.


Versi di Dante Maffia, Quadro di Gianluca Lombardo

mercoledì 11 luglio 2012

Guerra e dopoguerra


Sarà per il lavoro che faccio, ma i film di violenza non mi piacciono proprio. Quando proprio li devo pur vedere, lo faccio con sforzo. Ma ci sono film di guerra che molto ho amato, laddove la violenza, le lacrime e il sangue sono abbassati dall’altro piatto della bilancia: persone che trasformano la viltà in coraggio, la paura in dedizione, la superficialità in dignità perché tutte tese ad un obiettivo: far sopravvivere, attraverso la salvezza del proprio compagno, della propria casa, della propria città o, almeno, del proprio onore, l’umanità degli uomini, il quid che li rende, pur così fragili e limitati, assoluti, infiniti, eterni.

Il presidente del Consiglio Monti ha usato oggi un’espressione cui penso da mesi: siamo in guerra. Una dura guerra.

Dalle guerre si può uscire in macerie: disintegrati, distrutti. Oppure, poveri, feriti, amputati, distrutti eppure vivi: pieni di un nuovo slancio di futuro.










giovedì 5 luglio 2012

Benedetta Tobagi Come mi batte forte il tuo cuore


Più tenace della tua paura, più profonda del tuo dolore, nel silenzio dell’essere la Vita canta.
Walter Tobagi
Ho ascoltato dal vivo Benedetta Tobagi – oggi eletta nel CdA della Rai – una sola volta, nel novembre del 2010. Parlava, insieme, ad Amos Oz, al Museo Nitsh, di “abbracci spezzati” nell’ambito delle iniziative del Premio Napoli. Un incontro che, pur infastidito da insistite contestazioni sulla politica antipalestinese del governo israeliano fatte ad Oz, i fortunati presenti ricordano ancora per la bellezza del discorrere dei due interlocutori.
Scrissi sull’allora mio blog:
Gentile nei toni, nei modi e nel pensiero, lucida, equilibrata, Benedetta Tobagi, autrice del bellissimo Come mi batte forte il tuo cuore – Storia di mio padre, ha parlato del suo sforzo di “capire per controllare l’abnorme”: “Non si può vivere in un mondo in cui manchi l’orizzonte di senso, senza speranza, che non è l’ottimismo dei film americani, ma l’ordine della cose”. “Con la stoffa migliore”, ha voluto costruire “il miglior vestito” possibile per il padre, restituendone la personalità: “Io ho potuto scrivere perché ho avuto in eredità tutto quello che mio padre ha scritto. Ho cominciato ad avere un rapporto con mio padre attraverso i libri di mio padre. Il fatto che lo studio di mio padre sia rimasto intatto, bloccato, ha permesso che io ricevessi tutto. Mia madre ha cristallizzato tutto: non ho vissuto in una casa, ma in un cenotafio: ma dai libri è partito l’avvicinamento a mio padre. Scrivendo, ho cercato di innestare il pubblico e il privato, di mettere il dialogo la sua voce e la mia voce, in uno spazio più ampio”. Se, nelle parole della figlia, il padre vive con tutta la complessità del suo carattere, delle sue scelte, delle sue relazioni familiari, amicali, di lavoro, Benedetta Tobagi è in grado di parlare anche “dell’altra parte”, quella che lo uccise. Il suo giudizio, chiaramente e giustamente senza appello, sul terrorismo anni settanta è però capace di cogliere “l’umanità” dei terroristi. E, sulla scia di Walter, fortissima emerge nella figlia, l’esigenza di adoprarsi per quei miglioramenti sociali possibili affinché, anche nel “paese sommamente imperfetto” in cui oggi viviamo, “orizzonti di speranza abbiano spazio”.
Pochi giorni prima così avevo recensito il suo libro:
“Se toccasse a me (di essere ucciso, ndr), la cosa che mi spiacerebbe di più è non aver trovato il tempo per scrivere una riflessione che spiegasse agli altri, penso a Luca e a Benedetta, il senso di questa mia vita così affannosa”. “Vorrei poterlo rassicurare: le parole che compongono quella riflessione esistono, intessute in tutte le altre (che ha scritto, ndr). Rileggendole, ho trovato in controluce la lettera mai scritta destinata a me”. Come mi batte forte il tuo cuore, edito lo scorso anno da Einaudi, è la storia pubblica e privata di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera ucciso da una semisconosciuta formazione terroristica nel 1980. Ma è soprattutto la storia della lunga ricerca che Benedetta Tobagi, che aveva appena tre anni al momento dell’assassinio, compie per ritrovare suo padre, oltre i miti pubblici e privati che gliene offuscavano la vista: “Non sapevo da che parte cominciare. Allora non potevo certo immaginare che a condurmi per mano sarebbe stata la stessa persona che volevo raggiungere”.
Libro di fortissimo impatto; Come mi batte forte il tuo cuore intreccia l’analisi lucida e rigorosa dei nostri anni settanta, la ricostruzione attenta dei fatti e delle persone, sia per quanto concerne il fenomeno terrorismo che la vita in redazione, la tenera, pudica e spietata messa a nudo dell’incommensurabile dolore del vivere “in mancanza”. “Il dolore è una sostanza pericolosa, difficile da gestire, come un esplosivo molto instabile”: nonna Lisa se ne chiude in uno “pietrificato, inaccessibile innominabile”; il nonno Ulderico “si batté come un leone in aula accanto ai difensori di parte civile”, accumulando delusioni e amarezze; la madre, Stella, trova conforto in una dimensione spirituale di fede che “si traduceva spesso in comportamenti e affermazioni che per me erano profondamente disturbanti”.
Benedetta Tobagi, bambina triste e solitaria tra “un nome onnipresente e un vuoto abissale”, attraversa baratri che descrive con una sobrietà e, insieme, con una scoperta autenticità che entrano nelle ossa di chi la legge. Diventa grande cercando il padre, nei suoi scritti (giornali, libri, diari, appunti, lettere), nelle registrazioni di alcuni suoi interventi, nei ricordi di amici e conoscenti, nelle memorie dei familiari: “Mi hai accompagnato incontro alla mia vita. Prendermi cura di te mi ha spinto ad aprirmi verso il mondo. Per te ho avuto fame di leggere, scrivere, conoscere, e non sono sazia”. Si riconosce figlia non dell’icona ma dell’uomo Walter Tobagi “senza retorica, come una responsabilità, qualcosa di cui essere fiera e insieme un impegno da portare avanti, un tesoro da difendere e da valorizzare: la mia vera eredità”.



lunedì 2 luglio 2012

L'Europeo, l'Europa e il Meridione



Si può perdere 4-0 e vincere lo stesso.
Brava Spagna.
Grazie, Azzurri.

Scrivo queste righe su fb, a conclusione della finale dell’Europeo e mi trovo a dover gestire l’attacco virulento di una signora calabrese a Mario. Mica a Balottelli perche non è riuscito a ripetersi, bensì a Monti.

Non condivido, al di là di qualche simpatica, divertente, battuta, il senso di fare una mesca francesca di sport e politica. Ma, soprattutto, mi piacerebbe che tanti meridionali che sul web scaricano rabbie e volgarità a iosa (conosco meno settentrionali, altrimenti i due gruppi si equivarrebbero: mi è capitato di ascoltare alla radio un pezzo del congresso leghista, e bene non mi son sentita) comprendessero una cosa che pure mi pare lampante.

Se Monti – grazie al suo pensare “europeo”, al vedere il nostro futuro “dentro” quello della Comunità europea – riesce a farci uscire dalla grande crisi, non solo l’Italia tutta riavrà un futuro. Ma il Meridione riceverà il più grande assist al suo sviluppo che gli sia toccato nella storia recente, diciamo da De Gasperi in poi.

domenica 1 luglio 2012

Pensieri d'inizio vacanza



Mentre la costa tirrenica, nel pieno sole di luglio, scorreva a lato del treno che la riportava nella casa d’infanzia, Giulia avrebbe voluto la mente vuota o solo fugacemente attraversata da vaghi pensieri leggeri - invece:

Quella mattina, di luce autunnale ancora incerta, quando aveva portato in classe alcuni libri con protagonisti bambini – sapeva che, leggendo a voce alta, trasmetteva vibrazioni – per quasi un’ora s’era dimenticata di sé e anche i ragazzi erano rimasti in silenzio, gli occhi fissi in un punto lontano.
Avevano poi parlato dei ricordi – Francesco aveva sibilato: “Era bello quando ero piccolo, non sapevo niente, ero contento” – e aveva dettato tre tracce sulle loro esperienze infantili. Mentre scrivevano – solo Antimo era rimasto con la testa poggiata sul banco: “Ho sonno, voglio dormire” e Ciro scarabocchiava disegni semi-osceni – anche lei aveva iniziato a prendere appunti: Non soffia più il vento./Non mi spinge avanti l’onda leggera/di primaverili profumi. Remi /veloci cerco per fendere il mare/immobile. L’orizzonte è lontano. Poi Ciro s’era alzato per affacciarsi alla finestra e lei gli aveva ordinato di tornare al suo posto, nella voce nessuna dolcezza e nessuna rabbia. Lentissimamente, lui s’era avvicinato al suo banco e, poi, sedendosi, aveva piegato la testa da un lato, alzando le sopracciglia e fissandola a lungo con un lampo di triste arroganza nello sguardo.

Sapeva bene, Giulia, che, se avesse potuto scegliere non avrebbe mai fatto l’insegnante. Prima di tutto, perché non le piacevano i ragazzini. Poi, perché la scuola l’annoiava. Da studentessa, era sempre stata la prima della classe, ma aveva il sospetto che fosse successo perché, avendo una vita molto limitata e non potendo primeggiare in nient’altro, aveva trovato nello studio un nascondimento alle sue ossessioni. In più, senza mai dirselo, era convinta che solo chi ha una felice percezione di sé può trasmettere qualcosa agli altri, e lei non si amava.

Quell’anno, poi, aveva avuto una classe di ragazzini ignoranti e strafottenti, facce fissate in una maschera di sfottò che la snervava. Aveva paura delle loro reazioni e temeva di non essere in grado di reggerli. Li vedeva annoiarsi e si annoiava più di loro. Entrava in classe carica di fotocopie, di ritagli di giornali, di poesie. Si adattava a parlare di quello che vedevano in televisione. S’era addirittura abituata ad utilizzare tutta la dotazione informatica che la scuola aveva a disposizione. Quando era lontana da loro, si attrezzava ad una lezione interessante, ma varcata la soglia dell’aula la prendeva un senso d’annoiata impotenza. Accentuata dal fatto che s’era consumata un’illusione d’amore che, negli ultimi mesi del precedente anno scolastico, le aveva dato slancio. Gianpaolo era entrato nella sua vita per caso e non se n’era neanche accorto. Professore universitario, arguto e ironico, aveva tenuto alcuni moduli di aggiornamento per docenti nella sua scuola. A lei era tornato in viso un po’ di quel po’ di colore che s’era portato via il marito, quando l’aveva lasciata per Claudia. Passava continuamente in rassegna ogni momento in cui l’aveva visto e sentito; prendeva parole e immagini e li ripiegava, li metteva nei cassetti, poi li ritirava fuori. Aveva riorganizzato la sua mente intorno a lui e ai battiti adolescenziali del cuore. Le era sgorgata dentro una certa voglia di fare e tutto o quasi le era diventato più semplice con i suoi allievi e nel resto. Quando s’era accorta che tutto avveniva solo nella sua mente, il sentimento era svanito e con esso quell’abbozzo, se non di felicità, di leggerezza per quella confidenza con la vita che mai prima aveva provato. E tutto s’era, di nuovo, appesantito. Le pareti dell’aula, che in certi giorni le erano sembrate trasparenti, erano tornate muri sporchi e tristi. Insegnare ha qualcosa a che fare con l’amore, s’era detta, e lei, non avendo in sé neppure tracce disperse, nulla poteva dare.

L’arrivo nella stazione di Lamezia, svuotando i sedili vicino al suo, la distolse dall’acquitrino malsano dei suoi pensieri. Che si spostarono, a poco a poco – impercettibilmente – sul mare. Si stupì che, soprattutto dopo ogni galleria, apparisse diverso. Uguale, sì; ma diverso. Come se declinasse in una molteplicità di accenti la sua unica voce. Ora, l’azzurro cedeva al blu e, nel cielo, più chiaro del mare appena tremolante, apparivano sottili striature rosa. Non le parve bello continuare a vedersi come un limone, molle d’eccesso di inutile maturazione, che, appena toccato, si liquefa in lacrime acide. La bolla di solitudini e rimpianti, che galleggiava all’imboccatura dello stomaco, si frantumò in schegge ruvide come lembi di pelle scartavetrata che, deponendosi lenti ai suoi piedi, diventavano pallidi, impalpabili, petali.
Si chiese se da quasi due mesi di albe e tramonti di Calabria – con le granite di limone nel cortile dei meli cotogni e le brioche al cioccolato sul lungomare – sarebbe ripartita col sorriso lieve di chi, dalla sconfitta, non si fa vincere.

Pubblicato su Zoomsud con il titolo Racconti d'estate: Vacanze da scuola  http://www.zoomsud.it/commenti/35710-racconti-destate-vacanze-da-scuola.html