domenica 30 settembre 2012

"Cara Maria.... Pier Paolo Pasolini"


 
Se fosse un film, questa potrebbe essere la prima scena…
Tanti anni fa, quando mi giunse per posta una piccola nota che diceva: “Stiamo lavorando all’epistolario di Pier Paolo Pasolini. Sappiamo che lei ha ricevuto due lettere…”, ebbi un doppio stupore. Prima di tutto non avevo mai pensato che Pasolini mantenesse un archivio così preciso della sua corrispondenza. E, in secondo luogo, non avrei mai pensato che potesse interessare ad alcuno, se non a me, quel piccolo scambio.
Diedi perciò l’autorizzazione alla pubblicazione e non ci pensai più.
 
...Seguita da lungo flash back…
Avevo appena finito il ginnasio quando accompagnai mia madre a Chianciano. Come usava allora, le avevano ordinato di “passare le acque” e anch’io ero tenuta a quel rito che occupava buona parte della mattinata; poi non c’era nulla da fare se non passeggiare per verdi viali. Alla fine di uno dei quali c’era una piccola stanza: un regno, per me. Una libreria che conteneva testi che, a Reggio, non avevo mai visto, anche se li avevo cercati. Non avevo molti soldi in tasca, ma potevo chiedere di annullare qualsiasi regalo avevano intenzione di farmi, in famiglia, per il mio prossimo compleanno, e così comprai Le ceneri di Gramsci, rimanendone stordita e affascinata e, due giorni dopo, La religione del mio tempo.
Poi continuai a leggere tutto Pasolini – insieme alla Morante, a Kavafis, a tonnellate di poesie, romanzi, saggi storici, analisi politiche, testi teologici e quant’altro – e agli esami di stato presentai una tesina sulla sua poetica, seguendo soprattutto le tracce dell’elemento “religioso” presente nei suoi versi, nei suoi romanzi e nel suo cinema. La commissione d’esami ebbe qualche sbandamento, il presidente mi sottopose ad un mezzo interrogatorio, ma mi diedero il massimo, con tanti complimenti.
 
...Per arrivare al presente…
Un’alba di fine settembre, qualche giorno fa. Cerco, su internet, quali siano le città italiane che, in occasione della Festa dei lettori organizzata dai Presidi del libro, si sono ricordate del centenario della nascita di Elsa Morante e finisco su un breve saggio di un professore di cui non so niente. Bastano le prime due righe a farmi sobbalzare: quelle parole le conosco bene, in qualche modo mi appartengono.

Il senso delle parole
Mi preme sgombrare il campo da un possibile fraintendimento e sottolineare, invece, il valore, non piccolo in realtà, di quelle poche righe (cfr.su Zoomsud Quando mi scrisse Pasolini per consigliarmi la Morante).
 
Non intend(ev)o porre alcuna attenzione su di me. L’importanza di quelle parole non riguarda me– non avrei mai scritto di quella lettera, se non me la fossi trovata inaspettatamente davanti pubblicata in un saggio – né le mie, eventuali, doti poetiche. Ma sta nell’uomo, prima ancora che nello scrittore-poeta-saggista-regista-opinionista, Pasolini.
 
Che riusciva a trovare tempo e voglia di leggere anche i componimenti di una ragazza dell’estrema provincia meridionale e, addirittura, di scriverle con una cortesia discreta e squisita. E lo faceva dando suggerimenti, la cui preziosità non sta nell’indicazione di nomi pur importanti (Morante, Kavafis, Penna), quanto, piuttosto, in quell’atteggiamento, proprio di un maestro vero, che non vuole replicanti, anzi suggerisce di allargare lo sguardo oltre la sua persona e le sue opere.
 
Che poi il prof. Leonardo Di Vasto, con quelle parole a me rivolte (che, immagino, ha tratto dall’Epistolario di Pier Paolo Pasolini, a cura di Nico Naldini pubblicato da Einaudi in due volumi, 1986 e 1988) abbia ritenuto di poter illuminare ulteriormente il profondo interesse, la reale passione che Pasolini ha avuto per la Calabria - beh, questa è un’emozione impagabile.
 
 
« “Cara Maria, ho ricevuto una letterina di tua cugina accompagnata da certe tue poesie, delle quali dovrei dare un giudizio.
Ecco: nella loro dignità hanno ancora qualcosa di acerbo, o forse per troppo amore, di pasoliniano. Non è questo un male, naturalmente, ma lascia che la poesia maturi in te, trovi la sua stagione e poi, senza fretta, mandami i risultati. Intanto ti consiglio qualche poeta splendidissimo: Penna, Kavafis; il libro di Elsa Morante: Il mondo salvato dai ragazzini. Scrivimi quando vuoi
Pier Paolo Pasolini.
Così scriveva, cortese e paterno, Pasolini, nel novembre del 1970, a Maria Franco, poetessa calabrese, precisamente reggina, alle sue prime esperienze letterarie, e le suggeriva, per non rimanere ancorata al suo mondo poetico, l’opera di Sandro Penna, Costantino Kavafis, Elsa Morante.»
 
Non è il massimo citarsi (sì, la Maria Franco sono io) ma proprio questo è l’incipit di un articolo del professore Leonardo Di Vasto presidente dell' Associazione Cultura Classica Roma-Atene su Pier Paolo Pasolini e la Calabria (lo trovate facilmente su internet).
 
Iniziò così, tanti anni fa, la mia lettura di Elsa Morante, scrittrice-poetessa tra le più grandi della nostra storia letteraria, che oggi verrà ricordata qui e là per l’Italia, nel centenario della sua nascita, nel corso della Festa dei Lettori, organizzata dai Presidi del Libro.
 
Benché, come lei stessa scrive, “io non conosco abbastanza la Calabria” Elsa Morante volle dare un’ascendenza e un’infanzia calabrese alla protagonista de La Storia, uno dei libri più discussi e venduti della nostra letteratura.
 
“… della Cosenza di Iduzza non posso che ritrarne una figura imprecisa, attraverso le memorie dei morti. Credo che già fin da allora, intorno alla città medievale che cinge la collina, s’andassero estendendo le costruzioni moderne. In una di queste, infatti, di un genere modesto e ordinario, si trovava l’angusto appartamentino dei maestri Ramundo…”
 
Il padre, “di famiglia contadina dell’estremo sud calabrese”, “le rifaceva le voci di tutti quanti gli animali: dagli uceduzzi ai leuni. E a sua richiesta le ripeteva fino a dieci volte canzoni e fiabe calabresi…” e canta alla piccola Ida Ramundo un’indimenticabile ninna nana:
Dormite occhiuzzi dormite occhiuzzi
che domani andiamo a Reggio
a comprare uno specchio d’oro
tutto pittato di rose e fiori.
Dormite manuzze dormite manuzze
che domani andiamo a Reggio
a comprare un telarino
con la navetta d’argento fino.
Dormite pieduzzi dormite pieduzzi
che domani andiamo a Reggio
a comprare le scarpettelle
per ballare a Sant’Idarella…
 
Questi due pezzi sono apparsi, in ordine inverso a questo, su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/40302-la-lettera-di-pasolini-una-piccola-storia-grandi-significati.html
 
 
 
 
 
 

sabato 29 settembre 2012

L'autunno dei melograni

 

 
 
Autunno
Melograni che s’aprono come
labbra ridenti - intrecci
di uva bianca e nera - cotogne
dorate - lucide castagne ,
i primi loti, le sorbe già mature.
 
Toni pacati dovrebbe avere
l’autunno e colori aranciati
e dolcezza di lacrime quiete.
Per abbandonarsi al tepore
della casa in pomeriggi
umidi - sorseggiando morbide
parole silenziose, distillando
da ogni grano falciato la pacata
malinconia delle rinascite.

E fluidamente scivolare
nella propria  intimità, tratteggiando
nuove mappe, fiumi e monti, città e
mari di geografia interiore.
 
Ma, in questa arsura innaturale
(quasi preludio di nuova povertà) -
per chi nel tempo ti precede e chi
ti segue devi (re)stare.
Semplicemente. Come pietra
infuocata di vulcano.
 
 
 
Il racconto che segue è stato pubblicato su Zoomsud con il titolo Il melograno di Silvia http://www.zoomsud.it/commenti/40126-racconto-dautunno-il-melograno-di-silvia.html
 
 
Bollita non le piaceva, s’ammollava troppo. Meglio indorare al forno i cubetti con olio, aglio e prezzemolo, prima di qualche giro di frullatore. Silvia rimise il passato sul fuoco con tanti minuscoli pezzettini di emmenthal a fondere piano per poi riempirne la zucca precedentemente svuotata. Saltò in padella dei funghi, li sfumò con il vino bianco, li fece asciugare appena e ne versò una cucchiaiata abbondante nel purè di patate che stava già disposto in piccole ciotole da gratinare. Spense il fuoco sotto il padellino in cui aveva stemperato qualche filetto di alice nell’olio fumante di aglio e peperoncino con cui ricoprire i broccoli appena cotti. Si lavò le mani, fece aerare la cucina e preparò la crema di panna e mascarpone per farcire i voluttuosi kaki che, appena lavati, tremolavano nella loro incerta consistenza gelatinosa.
 
A sessanta anni passati, Silvia non avrebbe mai indossato un vestito arancione e neppure uno marrone o rossiccio – tutto il suo guardaroba era fatto di variazioni di blu e di grigio. Ma le piaceva cucinare secondo i colori delle stagioni e, d’autunno, arrostire castagne e friggere ciambelline di patate dolci, addolcire la verza con un generoso pugno di uva passa e impreziosire un semplice arrosto al limone con una zuccherata purea di cotogne.
 
Ragazza, non aveva mai preparato neppure un uovo fritto. A cucinare aveva imparato da sposata, quando – trasferitasi per alcuni anni col marito in una città del Nord – aveva cominciato a ripetere con una certa naturalezza quello che sempre aveva visto fare dalla madre e ad affinare particolari, studiando manuali su che fare di pasta, riso, verdure, carni. Per mesi, quasi ogni fine settimana, aveva organizzato cene per nuovi conoscenti: cercavano amici, con cui dare aria alla solitudine. Ogni cena le costava tre giorni di fatica, uno per fare la spesa e anticipare alcuni piatti, uno per cucinare e organizzare la tavola e l’ultimo per ripulire la casa, lavare e stirare la tovaglia, rimettere a posto le stoviglie. Preparava veri banchetti, con decine di portate, combinando piatti della tradizione ed esperimenti stuzzicanti e si andava avanti a lungo la notte. Lei non toccava quasi niente: un’allergia agli alimenti segnalava un disagio più ampio, di cui nessuno teneva conto.
 
Quando le fu chiaro che la loro tavola s’affollava solo per la bontà del cibo – con le primizie dell’orto che la famiglia le inviava dallo Ionio calabrese – quell’abitudine svanì, insieme alle facce e anche ai nomi dei commensali. Ma le rimase la scuola, accelerata ed esigente, di buona cuoca.
 
Da quando erano tornati a vivere al paese, s’era limitata a poche cene l’anno con vecchie coppie di amici. Con alcune si conoscevano tanto che avrebbe potuto trascrivere il giorno prima l’andamento della conversazione, con altre avevano in fondo poco da dirsi e, dopo l’iniziale piacere di vedersi e raccontarsi le ultime novità, era uno sforzo attivare una conversazione non banale. E anche quelle cene vennero diradate sempre più. S’infastidiva perché preparava sempre troppe cose e in troppa quantità, come se l’abbondanza del cibo tenesse lontana la fame degli avi ed evocasse quella famiglia più numerosa che una parte di sé continuava a rimpiangere.
 
Sebbene anche la tavola priva di ospiti le accrescesse un certo senso di vuoto, anche una cena con più persone le lasciava, comunque andasse, una sorta di svogliatezza dell’anima. Oltre piccole dosi, le persone la stancavano. Più stava nascosta, tenendosi stretti i tre, quattro pensieri sensati che riusciva a produrre in un giorno, meno peggio si sentiva.
 
Ma in un momento leggero – le prendevano certe ore in cui per un niente, una parola gentile, una telefonata, un’attesa angosciosa sciolta in un arrivo felice – aveva invitato quattro amiche recenti con cui s’era trovata a condividere una piccola attività di volontariato. Le chiamava amiche perché nessun altro termine le pareva convenevole, ma sapendo che neppure quello rispondeva alla realtà. C’erano piccoli muri in lei che la separavano dagli altri, che la lasciavano in una solitudine a volte cercata, a volte accettata, talora dolente. Era un fico d’india che, quando le si avvicinavano, poteva smorzare gli aculei o renderli più rigidi: baffi taglienti di un gatto con le orecchie tese, pronto alla difesa. Comunque, le aveva invitate per una sera in cui marito e figli non ci sarebbero stati. E aveva poi resistito ad ogni tentazione di fingere un impedimento, di declinare con una scusa garbata quell’impegno.
 
E, ora, Silvia stava cucinando, senza ansia, dandosi il tempo necessario. Avrebbe messo una tovaglia che aveva ricamato per mesi e che aveva lasciato sempre nel cassetto: tutti frutti a punto a croce, un’esplosione di colori eccessiva e festosa. E avrebbe infine sgranato un grosso melograno e raccolto i chicchi in una ciotola di cristallo al centro del tavolo. Dessert inusuale e gradevole, che le sue ospiti avrebbero assaggiato con gusto e curiosità. A lei sarebbe bastato lasciarsi colmare da tutte le scie di simboli che quel frutto avrebbe sprigionato nell’aria.
 
 
Le foto sono di Caterina Niutta
 
 

martedì 25 settembre 2012

Abbasso (certi) libri. W la BBC


 
Ho da pochi giorni iniziato un progetto (termine usato qui in maniera generica non nel burocratese scolastico), a cui, con diverse approssimazioni, penso da almeno un quarto di secolo.

Passo la mattinata, in classe, a far cogliere, ai ragazzi, come basta, talvolta, un “oh” , uno solo, a raccontare un intero mondo di emozioni.

Di pomeriggio, vado in una libreria, anzi nella libreria più importante della città. C’è la presentazione di un libro che – uscito da una ventina di giorni, avendo goduto dell’attenzione di uno la cui opinione è tenuta da conto da amici e nemici – è al centro di paginate pressoché entusiaste.

Sono disposta a farmi coinvolgere nello stupore condiviso del: oh, che bel libro, che libro nuovo, ecc. ecc. Ma la presentazione mi scorre addosso. Non che sia noiosa, è che proprio mi manca l’aria. Non ce la faccio più a reggere questa caterva di testi che, comunque ci girino intorno, sono monotematici.

In mancanza di capolavori – che in un secolo si contano sulle dita, mica ne possono uscire venti, trenta al giorno – mi basterebbero storie belle: fresche e vivaci: boccate d’aria buona.

E’ una fortuna che la Bbc continui a sceneggiare libri di tal fatta e una fortuna ancora maggiore che ci sia gente che li sottotitoli in italiano. Che bello ritrovare, di tanto in tanto, la compagnia di storie che con garbo, discrezione, intelligenza e sensibilità, sorreggono la fatica dei giorni.

domenica 23 settembre 2012

L'equinozio al tempo di Persefone



C’è stato un tempo in cui per i calabresi, l’equinozio d’autunno – quest’anno il 22 settembre – aveva a che fare qualcosa con lei.

Era il tempo in cui Persefone – viva ancora oggi nei pinakes locridei – lasciava la madre Demetra e scendeva agli inferi per rimanere sei mesi nell’Ade prima di tornare sulla terra con l’equinozio di primavera. Segno di quell’inesausto ciclo vita-morte e di quel perenne mutare delle stagioni per cui, come dice l’Ecclesiaste, “c’è un tempo per nascere e un tempo per morire,/un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante”.
 
Alla vigilia di questo autunno carico di tensioni e inquietudini – in cui l’immediato presente e il prossimo futuro calabrese ( e non solo) non appaiono contenere molte sfumature di rosa e neppure i toni più chiari del grigio ma virano, piuttosto, verso il nero – è stata annunciata una nuova scoperta archeologica: non casuale, anzi frutto di accurate campagne di scavo.
 
Quanto vale questo mosaico dell' antica Kaulon– 25 mq che raffigurano un drago – è questione da lasciare agli esperti.
 
Ma che emozione questo continuo ritorno del nostro passato – fili preziosi di una bellezza ancora possibile, note di una musica lontana che, nonostante tutto, prova a farsi ascoltare. Quasi il pegno che la nostra storia, e con essa il nostro presente e il nostro futuro, non è finita.
 
 

giovedì 20 settembre 2012

La lezione di Athena Promachos



Quante cose si possono apprendere con una semplice passeggiata.
Non solo sulla riva del mare, tra gli alberi in frutto nelle campagne o, in montagna, tra i boschi; anche, semplicemente, in città. Talvolta, bastano pochi minuti a piedi.
 
Se andate a passeggiare su quella meraviglia che è il Lungomare Falcomatà, arrivando all’ex Arena dello Stretto, fermatevi un attimo davanti ad Athena Promachos.
 
Non che sia statua di bellezza assoluta, ma questa dea combattente posta a simbolica protezione della città, ha un particolare molto interessante: non guarda verso il mare.
 
Chi l’ha fatta mettere così* pensava – come pensano tanti altri, basti ricordare i versi di Kavafis In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,/né nell'irato Nettuno incapperai/se non li porti dentro/se l'anima non te li mette contro – che i nemici veri vengono, sempre, da dentro e che è dentro che bisogna trovare le energie giuste per combattere e ri-prendere costantemente la via del bene.
 
Le lezioni non piacciono più quasi a nessuno. A scuola, maestri e professori fanno ormai una gran fatica a farsi ascoltare. Chissà se va meglio alle statue delle dee.
 
 
 
*L'ha fatta disporre così il più grande sindaco della storia reggina, Italo Falcomatà

martedì 18 settembre 2012

Elsa, Rosy e il silenzio delle donne




Elsa Fornero - chi vuole attaccarla deve farlo con/su argomenti, non con vignette squallide.
Rosy Bindi - chi vuole attaccarla non deve farlo gettandole addosso riso e varie.



Mi chiedo perché i movimenti di donne, sempre prodighi, su internet, a schierarsi a difesa di questa o quella donna, non dicano niente su modalità volgari, a forte carica maschilista e/o comunque poco in uso nei confronti di ministri uomini, che hanno colpito, negli ultimi giorni, due politiche, certamente discutibili per le loro posizioni, ma decisamente "signore".

sabato 15 settembre 2012

Pomeriggio d'autunno

 
Snervato malessere
d’un pomeriggio
di settembre
che troppo rapido precipita
nel grigio e nelle pioggia.
 
Golfino e plaid riparano il corpo
dal calare improvviso
del freddo
ma non intiepidiscono
il cuore.
 
Ti rintani
nello scialle
dei tuoi pensieri
per quietare
l’acerba malinconia
di questo preludio
di fine.
 
Poi l’indomani
ti risvegli con un cielo
felice
d’azzurro.
 
immagine tratta dalla pagina fb di CALABRIA... i mille volti di una regione meravigliosa!
 
Rimando ai seguenti articoli pubblicati su Zoomsud
 
 
 
 
http://www.zoomsud.it/commenti/39368-la-repubblica-e-qla-solitudine-dei-calabresi-onestiq.html


 

venerdì 7 settembre 2012

L'odore di Ibico



A primavera, presso l’inviolato/ giardino delle ninfe/fioriscono i cotogni da fluviali/linfe irrigati.

Così cantava Ibico, il più grande poeta reggino, nel VI secolo a. C. E, certo, sono belli, piccoli merletti bianchi nel verde, i fiori dei meli cotogni.

Ma la stagione vera di questi alberi è quando l’estate scivola nell’autunno, col sole che si lascia, a tratti, oscurare da un velo di grigio, il silenzio pacato che precede la pioggia dal ritmo tranquillo o quello inquieto che anticipa scrosci rabbiosi, il tepore delle stanze dalle finestre improvvisamente richiuse, quel sapore d’uva diffuso nell’aria trasparente.

Sono i giorni in cui i frutti verdi giallognoli dei meli cotogni, ricoperti di peluria marroncina, diventano maturi.

Pronti per essere bolliti o cotti al forno, con lo zucchero sopra a mitigarne l’aspro o a diventare confettura, la più faticosa da preparare perché sbucciare le mele cotogne rende le mani vetrate e incolla le dita di un umore che sembra tirare la pelle: ma poi ne basterà qualche cucchiaio per trasformare una crostata di mele normali in una bontà particolare.

Qualche frutto resterà sugli alberi e diventerà di un giallo caldo ma non sfacciato, simile a quello delle foglie ormai invecchiate. Chi può li raccolga e li metta in una cesta di vimini (c’era, un tempo, un artigianato in Calabria che produceva bellissimi cesti e cestini: c’è ancora?), magari insieme a qualche melograno. Questi ultimi, si dice, portano fortuna e, comunque, son belli. I primi daranno alla casa un aroma tenue e forte, intenso e gentile, discreto e durevole.

Socchiudete gli occhi e, per qualche attimo, vi ritroverete nella terra dove fioriscono i meli cotogni.

 

Pubblicato su Zoomsud col titolo Ibico, i meli cotogni e l’odore dell’autunno reggino http://www.zoomsud.it/commenti/39015-ibico-i-meli-cotogni-e-lodore-dellautunno-reggino.html

Su Zoomsud è stato pubblicato anche Crescere. Alla luce del proprio sole
http://www.zoomsud.it/primopiano/38948-alla-luce-del-proprio-sole.html


Rimando anche a:









 

 

 

domenica 2 settembre 2012

La sulla e le donne di Calabria



Non che avessi grande compagnia – ero troppo piccola per le grandi e troppo grande per i piccoli – ma mi piacevano quei pomeriggi di domenica quando le madri ci portavano fin sulle spianate alte dei campi a raccogliere erbe selvatiche che, nel corso della settimana, diventavano minestre, risotti e frittelle.

Tutto era quieto, luminoso. La mente poteva vagare all’infinito, immaginare mondi lontani nel tempo e nello spazio; profumi, colori, chiacchiere erano frammenti d’oro intorno a cui imbastire in silenzio storie da raccontarsi.
 
Quel pomeriggio, la sulla oscillava lieve al tiepido venticello di primavera. Quel porpora – che sembrava mescolare in stupefatto equilibrio rosso, amaranto e viola – riempiva ‘u chianu d’un’allegria accesa di papaveri, margherite bianche e gialle e fiori di cui mai avrei saputo il nome italiano.
 
Nei pressi di un dirupo, le voci delle madri si fecero più basse e cupe: malriuscito tentativo di parlottare senza farsi sentire dai bambini. Parlavano d’un (recente?) omicidio, di un uomo che aveva lì aveva ucciso e sepolto la moglie. I colori intorno mi divennero opachi e un’opprimente inquietudine mi rallentò il respiro. Avrei capito dopo anni che m’aveva scosso, insieme o forse più del fatto in sé, il tono assurdo di quei sussurri: che mettevano sullo stesso piano, come effetto in fondo naturale di una specifica causa, il gesto atroce dell’uomo e il tradimento della moglie.
 
Era, penso, la prima volta che sentivo parlare di ‘i mali fimmini, una categoria di donne con varie e diverse sottospecie, che non rientravano mai nei discorsi di comune quotidianità e di cui, infatti, avrei appreso solo col tempo.
 
Fino ad allora, avevo sentito dire solo di due generi di donne: le curespine e le scamardate.
 
Le seconde erano le pigre, massaie da niente, inesperte in ogni attività tradizionalmente casalinga e femminile, per non dire di totale incapacità in tutto ciò che riguardava la semina e la raccolta in un orto o l’allevamento degli animali domestici. Quando la trascuratezza nel lavoro domestico era anche sciatteria della persona e trascuranza delle relazioni parentali-amicali, allora il termine diventava più pesante: per esempio, sciondulara.
 
Le prime erano le donne virtuose: assennate e prudenti, di animo vigoroso e parole sagge, buone governanti della casa, ottime cuoche, capaci di lavorare nei campi ma anche di ricamare, filare la lana, cucire un orlo: le depositarie di virtù domestiche “allargate”, e considerate al massimo quando si univano a modi da signora “valente”, che obbligava gli altri ad un rispetto sincero e devoto.
 
Curespine e scamardate. Quanto bastava per apprendere, nei suoni di un dialetto che sapeva di greco, che le donne (come gli uomini) non sono tutte uguali.
 
Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/38648-la-sulla-le-curespine-e-le-scamardate.html con il titolo La sulla, le curespine e le scamardate
 
 
Nota a margine: Il rosso-sulla è il colore dominante di La collina nel vento di Carmine Abate, che ha appena vinto il Campiello cfr Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/38775-il-calabrese-carmine-abate-vince-la-50edizione-del-campiello.html
 

sabato 1 settembre 2012

1 Settembre

 
Sarà sempre così? Sarà questo, per chi vive e lavora lontano dall’estremo sud in cui è nato, un giorno teso tra un “andare” dove il dovere chiama – Settembre, andiamo. E' tempo di migrare. (Gabriele D’Annunzio) – e un “lasciare” il cuore ad altro mare, altre colline, altri colori – Settembre, son mature le carrube… (Salvatore Quasimodo), uno iato incolmabile tra quello che “guadagni” e quello che “perdi”?
Se Aprile è il mese più crudele, genera / lillà da terra morta, confondendo / memoria e desiderio, risvegliando / le radici sopite con la pioggia della primavera (Thomas Stearns Eliot), Settembre può essere il più dolce.
Non per quel declinare lento dell’estate che lentamente socchiude/i grandi occhi pesanti di stanchezza mentre fresca/scende ai fiori la pioggia e Gocciano foglie d'oro/giù dalla grande acacia (H. Hesse).
Ma perché conosce l’attesa, trepida e magari preoccupata eppure pregna di speranza, intima, quieta, degli inizi e dei ri-cominciamenti. Senza botti, cenoni, brindisi, regali e stordimenti – è davvero il primo giorno dell’anno.

 

Questa l’ho scoperta oggi. E’ di Mary Jo Salter, Emily Dickinson Lecturer in the Humanities al Mount Holyoke College, lo stesso in cui la Dickinson andò a scuola per un anno.


Com’è difficile prendere settembre
semplicemente e non come un presagio
di qualcosa di più duro.
Solo come saponata nell’aria, fresco profumo
strofinato a lucido del significato o innocente
della cosa fredda intesa freddamente.
Come strattona forte il cuore alla fine
dell’estate e anela a farla sua
quando vola via
 
al suggerimento della prima mite brezza.
Ci lascia solo a poco
a poco, ma per chi vede
l’estate come un assoluto,
Puro Stato di Luce e di Calore, l’altezza
alla quale non si può elevare un dubbio,

non appena una foglia si stacca dall’albero
non può cadere un altro giorno immune
dalla deriva della malinconia.