martedì 4 dicembre 2012

Nonostante che, è Avvento




Con me Eduardo De Filippo-Luca Cupiello l’ha vinta da sempre. Il presepe mi piace. Assai.

Mi basta un accenno, la grotta, qualche pastore, un po’ di pecore. Ma ho una predilezione per quelli grandi, con case e casettine, laghetti e torrentelli e, soprattutto, miriadi di personaggi. La venditrice di uova e il macellaio, il fabbro e il verdumaio, la lavandaia e il pescatore, lo scemo del villaggio e il sapiente che viene da lontano e poi le galline, le oche, i colombi, il maialotto, i cesti di pane e i bicchieri di vino.
 
E’ come vedere uno di quei paeselli calabresi arrampicati su per l’Aspromonte con tutti gli abitanti, colti negli umili mestieri di un tempo, nell’atmosfera sospesa di una notte stellata, quando ogni cosa sembra andare oltre se stessa e non c’è buio che non sia illuminato, silenzio che non dica parole essenziali.
 
Uno sguardo in più e ogni pastorello di terracotta si scioglie dal suo incantamento e si muove con l’andatura ‘i cummari Peppina e di ‘mpari Turi ed è tutto un quotidiano discorrere: “’Mari Santina, aviti ‘nu pocu ‘ i putrusinu, che aia ‘a fari ‘i purpetti?”, “Mali ‘ppe mia, chi mi succiriu…”, “Focu meu, focu meu, sintisti chi Mariuzza sa fuiu…”.
 
Il bue e l’asinello tacciono, ma il loro respiro colma di tepore la grotta e si fa scialle per il freddo del cuore. Come quando ero piccola e, nella stalla, lì dietro i banani e le vasche per l’acqua, mentre mia nonna mungeva la vacca, ruminavano quieti la paglia e il loro fiato era una piccola nuvola che riscaldava l’inverno.
 
Una «piccola divagazione» sul presepe – «nel Vangelo non si parla qui (ndr, nei versetti che raccontano la nascita) di animali», ma «nessuna raffigurazione del presepe rinuncerà al bue e all’asino» – la regala anche l’ultimo libro di Benedetto XVI: una narrazione, semplice nel linguaggio, limpida nello stile e profonda nei contenuti, de L’infanzia di Gesù. Una riflessione che può felicemente accompagnare i credenti nell’avvicinarsi al Natale e trovare attenzione anche in chi non credente o credente in altre fedi, ha qualche curiosità sull’argomento.
 
Pubblicato da poche settimane in 1 milione di copie, in contemporanea in 9 lingue e 50 paesi, non appare certo strano che il libro, coedito, nel nostro paese, oltre che dalla Libreria Editrice Vaticana, da Rizzoli sia in testa – come riferisce La lettura del Corriere della Sera – alle classifiche italiane di quelli venduti nel settore saggistica, sia in cartaceo che in e-book.
 
Vi venisse però la curiosità di sapere se anche in Calabria L’infanzia di Gesù sia al vertice delle vendite, non troverete risposte. Per il semplice fatto, – e se non è così, sarò lieta di apprenderlo – che in Calabria rilevazioni settimanali a tappeto di quanti e quali siano i libri venduti pare non se ne facciano.
 
 




Quand’ero giovane, nel secolo scorso, l’inverno iniziava il 2 dicembre, quando nonni e zii contadini
scrutavano il cielo dell’alba con grande attenzione: “Si ‘cchiuvi ‘a santa Bibbiana, ‘chiovi ‘nu ‘iornu, ‘nu misi e ‘na settimana”… e il Natale iniziava alla fine di Novembre, con quella Novena, che, all’Immacolata, portava in tavola le stesse crispeddhi del 24 e del 31 Dicembre.
 
Anzi, no, Natale iniziava ad agosto – “Siccamu ‘ndu fichiceddha pi’ pitrali” – con appendice a Settembre – quando il primo mosto doveva bollire fino a ridursi ad un quarto per quel vino cotto che, l’otto Dicembre, veniva versato in un grande recipiente smaltato in cui ogni giorno, ai fichi, si aggiungeva qualcosa (noci, bucce di mandarini, cioccolato) fino a farne quella pasta inebriante che riempiva in mezze lune la frolla dei petrali qualche giorno prima del Natale.
 
Se ‘i crispeddhi erano l’espressione del niente che attingeva al sublime (un po’ di farina, un po’ d’acqua, tanto olio di gomito: solo civiltà contadine di lunga tradizione possono produrre qualcosa di simile), i petrali erano la povertà che diventava ricchezza. Gli ingredienti del lavoro dei campi di tutto un anno, più qualche ombra di cioccolato (se c’era) che diventava il simbolo del “di più” che il Natale rappresenta e il tutto “nascosto” perché l’apparenza di quel piccolo dolce non rende l’intensità né del profumo né del sapore. Come, passando dal profano al sacro, in fondo non è immediatamente visibile l’immensità di Dio in un Bambino.
 
Giorni, nelle case, di assoluto predominio al femminile. Con le donne che si aiutavano a vicenda nel produrre cofani di petrali e gli uomini di casa in funzione di aiutanti, che non si opponevano ad “essere ordinati” di occuparsi dei grandi forni a legna, gli stessi del pane: con le relative litigate sui tempi di cottura. E i bambini mandati a portare la spasella alla vicina ‘Ntona e alla ‘za Caterina. E tutte le chiacchiere che si possono immaginare, i confronti tra i petrali di Cicciddella e quelli di Mariuzza e di ‘Raziedda.
 
“…si occupò della casa, filò la lana…” si diceva delle grandi donne romane. Di quante reggine, nostre ave, bisognerebbe ricordare, a perpetuo vanto, le loro crispeddhi e i loro petrali?

Nel pre-Natale 2012, tra gli odori, reali e metaforici, in cui siamo immersi, che meriterebbero solo nome di “puzze”, “miasmi” e simili, riusciremo a cogliere, meglio a produrre, anche qualche buon profumo?
 
 
 

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