lunedì 25 febbraio 2013

L'ultima lettera da 'za C.

“Sai come sono fatti gli uomini…”. Tra pause ed accelerazioni, uno sguardo e un voltarsi, ‘a ‘za Catuzza raccontò ‘o ‘zi ‘Ntoni l’ultima pena di donna Mariuzza: voleva, per la prossima Pasqua, fare un’infornata di ‘cudduraci da mandare alle figlie sposate, che abitavano lontano, proprio alla fine della strada che portava alla città. Ma il marito s’opponeva: troppo spreco di zucchero e farina, troppe uova e, poi, lui non aveva tempo da passare col forno né d’avviarsi in città con tutto il da fare che teneva in quei giorni in campagna. Il racconto fu lungo, minuzioso, ripetuto: sussurrato e insistito al punto giusto. “Che dici se viene a impastare qua? Tu ce li metti dentro il forno, per il resto ce la vediamo noi…”. ‘U ‘zi ‘Ntoni – ch’aveva un debole a farsi vedere uomo superiore a certe meschinerie – si ritrovò ad abbozzare un sì. Venne donna Mariuzza che non erano ancora le quattro del mattino. Impastarono dieci chili di farina, riempirono le landedi metallo di cuori e colombe e panieri di pasta fragrante, ognuno un tripudio di uova sode trattenute da ghirigori di impasto. Lui cominciò a infornare e il profumo inondò la rua. Donna ‘Mariuzza si sfregò le mani nel grembiule scuro, salutò e, rapida, ne tornò a casa. ‘A ‘za Catuzza spiegò ‘o ‘zi ‘Ntoni: “Poi se li viene a prendere… poveretta, il marito la controlla di tutto, le tiene conto al centesimo”. Nel pomeriggio, ‘u ‘zi ‘Ntoni le disse quello che già lei sapeva: “Domani vado a Reggio, perché…”. Lei assentì: “Bene, bene” e rimase zitta per un po’. Poi, come colta da un improvviso pensiero: “’Ntoni, che dici? Qua c’è roba di ‘Titina… tu fai quella strada, magari, se non t’è d’impiccio, gliela puoi passare”. Lui disse di sì: tanto non aveva niente da metterci all’andata, ma si doveva portare i cofani per il ritorno. E così, senza neppure sospettarlo, portò alla figlia da ‘za Catuzza le decine di cudduraci che donna Mariuzza, la più brava del paese, aveva impastato, ben ricompensata con due scossate di fagioli o di cicerchia. Alle giovani, troppo timide spose, donna Catuzza lo diceva sempre: “L’omini sannu ‘a fari curnuti e cuntenti”.
Una diecina, forse quindici, anni dopo la storia dei cudduraci - la domenica pomeriggio, quando andava in giro per parenti, Rosa se li trovava seduti al sole, in un cortile su cui si affacciavano tre piccole case. Oppure, 'u 'zi 'Ntoni si faceva la barba, spennellandosi abbondantemente il viso davanti a uno specchio messo, insieme ad una bacinella d’acqua, sul cornicione della finestra e lei sfaccendava in cucina – in fatto di cibi non c’era segreto che non conoscesse; il profumo dei suoi maccheroni tirati col ferro da calza arrivava fin sulla strada. Ma, qualunque cosa stesse facendo, rapida, ‘a ‘za Catuzza andava a prendere le lettere arrivate in quei giorni perché la giovane gliele leggesse.
Analfabeta, 'a 'za Catuzza coltivava una ricca corrispondenza con le figlie e i nipoti lontani, soprattutto con quello che chiamava “gioia e tesoro”. Rosa scriveva, sotto dettatura, cinque, sei lettere a volta, ripetendo sempre le stesse cose: “Ho ricevuto la tua lettera e sono contenta di sapere tue notizie. Io sto bene e così spero di te”, e allargava i caratteri perché, se avesse usato la sua normale grafia, il foglio, ripiegato in due, sarebbe rimasto quasi tutto bianco. La corrispondenza s’infittiva nei periodi in cui qualcuno dei parenti scriveva che sarebbe sceso giù, in Calabria, magari per l’estate e allora 'a 'za si affannava a ripetergli di venire, che il tempo era bello e la frutta era buona, mentre ‘u ‘zi ‘Ntoni, i folti baffi bianchi impettiti, si preoccupava di controllare ogni giorno i fichi mulingiana – perché i più belli maturassero giusto per la venuta di “gioia e tesoro”. Che, poi, era nipote solo di lei, che, da giovane, lasciati marito e figlie, se n’era venuta a vivere in paese ‘cu ‘zi ‘Ntoni, che, a furia di villanie, s’era lasciato scappare la moglie vera, una giovane bianca di carnagione e delicata nei modi che lui s’era portata lì da una lontana città sul mare.
Quando s’era messo con la ‘za Catuzza, ‘u ‘zi ‘Ntoni – tornato anni prima dall’America, “cu ‘nu busciulu ‘i sordi” – possedeva un bel pezzo di terra fertile di mandorli e un orto vicino casa. Ma, per quanto lavorasse, i suoi beni non crescevano mai. Perché, si diceva in giro, lei lo “spogliava” per mandare quanto più poteva alle figlie, via via che si facevano grandi e avevano bisogno del corredo.
Rosa aveva cominciato a leggere le loro lettere – scritte di fretta e quasi per forza, come un peso di cui liberarsi – quando ormai le figlie avevano nipotini grandicelli e, ad ogni invito di ‘za Catuzza – scendete, scendete, venite a trovarmi – cercavano scuse: che la nuora mancava e dovevano tenere il nipotino, che il marito non poteva in quel momento restare solo, e, soprattutto, che stavano male. Malattie cui la ragazza non riusciva a credere, soprattutto quando, in inverno, ‘a ‘za Catuzza finiva a letto con qualche bronchite e – il volto magrissimo perso nel lettone con i doppi materassi – le diceva di scrivere, come sempre, “sto bene e così spero di te”. A volte, quando accennava alla possibilità di mettersi su un treno e di risalire la penisola, promettevano di scendere subito, al massimo tra quindici, venti giorni. Poi, regolarmente, prendevano la storta a un piede o il medico gli consigliava di non muoversi.
Dopo la morte di ‘u zi ‘Ntoni – che, perfettamente sano fino a quel giorno, ben poco sopravvisse ad un’improvvisa paralisi – le lettere della ‘za Catuzza erano ormai dirette quasi solo al nipote prediletto. “Vieni – scriveva Rosa – prenditi la casa, i materassi, i mobili. Alla Posta ci sono 800mila lire, 500 te le prendi tu e 300 le usi per il mio funerale”. Il nipote rispondeva tergiversando, le figlie scrivevano ormai di rado: “Mamma, vorremmo venire ma… Voi siete ingiusta a dire che non vi trattiamo…”. Lei dimagriva e s’incurvava ogni giorno di più e continuava a dettare, con voce sempre più roca, lettere sempre più brevi: “Vieni, T., che il prossimo anno non ci sarò più… I., tua sorella almeno ha il marito malato, ma tu puoi scendere… G., proprio ora che t’ho bisogno vicino non ci sei…”. Spesso era Rosa ad aggiungere una postilla: “Questa volta non sopravvive, scendete”. Non venne nessuno.
L’ultima lettera, 'a 'za Catuzza gliela dettò poco prima di Natale, quasi invisibile nel lettino bianco, i capelli non più intrecciati sulla nuca, ormai senza voce. Erano le sue mani a slanciarsi in un grido, invocando la figlia più piccola. I. – che non aveva mai scritto un rigo, lo faceva suo marito – non scese per i funerali. G. telefonò a una vicina: “Signora – pianse con un accento del Nord – lei che è stata vicina alla mia mamma, le raccomando di darl le un bacio da parte mia”.
Pubblicato su Zoomsud con il titolo I cudduraci da 'za Catuzza  http://www.zoomsud.it/commenti/47902-i-cudduraci-da-za-catuzza.htm

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