lunedì 8 aprile 2013

La conca delle orme antiche







C’è un punto della costa che da Reggio va verso lo Jonio che più d’ogni altro mi appartiene.

Nulla che abbia a che fare con proprietà definite al catasto, ma piuttosto con quei colori, odori, sensazioni, che si sedimentano nella prima infanzia e che, poi, ci si porta dietro per sempre, consapevolmente o meno.

La piccola conca non è più l’idillio di brucare e sabbia che la memoria ha fissato alle pasquette della prima infanzia, quando sotto la grande mimosa, giocavo sbocconcellando il mio cudduraci a panierino. Ma conserva tuttora molto del passato tanto che non è difficile immaginare, almeno nell’ambientazione, la scena di un po’ di secoli fa, quando proprio qui, uno dei miei antenati venne rapito dai turchi. E, poi, chissà come e quando, da queste parti tornò, riprendendo le fila della sua vita da dove erano state interrotte.

Prove? Solo antichi brandelli di ricordi, frammentari e contraddittori, in qualche modo arrivati fino a me, e un orecchino da uomo, cimelio preziosamente custodito eppure finito in mani ladre.

Ma, più forte di ogni prova documentata, è la pacata accelerazione del respiro che mi lascia intravvedere, sul bagnasciuga – ben oltre la percezione dello sguardo – orme ignote eppure familiari, mentre, nello sciarbodio delle onde, si frangono e mescolano tutte le storie – dalle migrazioni greche alle attuali – che, dei calabresi, hanno fatto pietre erose o conchiglie limate.

Pubblicato su Zoomsud con il titolo La conca del turco




 

Gli occhi erano carboni ardenti. Tempeste di mare e di terra fuse nello sguardo di chi ha tutto sopportato – umile e acceso da lampi di orgoglio, anche sfrontato, d’essere a nessuno inferiore: al di là, naturalmente, della porta di casa, che, dentro, comandava la madre.
 
Più non scese alla conca del turco, dov’era stato rapito, né assaggiò pesce. Proibì alle donne di casa di lavare all'onda trasparente del mare la lana cardata delle pecore. Comprò un pezzo di terra seccagna, si spaccò la schiena zappando sotto il sole, la pelle già cotta da salsedine e marosi, annerita e dura come dorso di mulo selvaggio. Piantò olivi ruminando preghiere: “Signuri, assai mi lavuru e pocu ‘ma’acquistu”.

Portò l’orecchino, come indelebile marchio d'un morto tornato in vita, fino a quando gli parve l’ora di affidarlo in custodia al figlio primogenito. E, per molti anni, nella casa costruita con le pietre dissepolte sull’apra collina, non entrò altra traccia d’oro.

Finché giunse la sposa dalle nere trecce più volte arrotolate sul capo. Portava in dote due anellini leggeri leggeri. Uno con una losanga romboidale e l’altro con due losanghe dello stesso tipo, smaltata la prima di azzurro, punteggiato di bianco sui bordi, le seconde di rosso con puntini di azzurro e di giallo.

Semplicissimi entrambi, richiamavano particolari delle miniature arabe. Ma nessuno della famiglia lo sapeva.

Pubblicato su Zoomsud con il titolo Le losanghe dei due anelli

1 commento:

  1. Non si tratta semplicemente di mettere insieme i due pezzi. La veste in cui oggi proponi il tuo mosaico, Maria, contiene una magia che sa dire oltre le parole. E' un gioco di senso a rimpiattino, con la differenza che io lo inseguo e lui - anziché sfuggire alla mia presa - le si offre.
    Grazie.

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