lunedì 15 aprile 2013

Renzi, i cattolici e il Presidente della Repubblica



"Non mi interessa che il prossimo presidente sia cattolico. Per me può essere cristiano, ebreo, buddista, musulmano, agnostico, ateo. Mi interessa che rappresenti l'Italia. Che sappia parlare all'estero. Che sia custode dell'unità in un tempo di grandi divisioni. Che parli nelle scuole ai ragazzi. Che spieghi il senso dell'identità in un mondo globale. Che non sia lì per accontentare qualcuno. Mi interessa che sia il Presidente applaudito per le strade come è stato quel galantuomo di Giorgio Napolitano. E che sappia dialogare, ascoltare, rispettare. Che sia al di sopra di ogni sospetto e al di là di ogni paura. Mi interessa che sia il Presidente di tutti, non solo il Presidente dei cattolici. Chi rivendica spazio in nome della confessione religiosa tradisce se stesso. E strumentalizza la propria fede. Tanti, forse troppi anni di vita nei palazzi, hanno cancellato una piccola verità: non si è cattolici perché si vuole essere eletti, ma perché si vuole essere felici. C'è di mezzo la vita, che vale più della politica. E il Quirinale non potrà mai essere la casa di una parte, ma di tutti gli italiani".





Queste sono parole di Matteo Renzi, in una lettera di oggi a Repubblica. Non intendo entrare nelle polemiche che stanno investendo (facendo esplodere?) il Pd. Né so se lui ha in mente una persona specifica da votare (far votare) e, nel caso, se la stessa coincide(rebbe) con chi preferirei io. Ma, nel merito, le condivido pienamente.



Su Renzi, rimando a questo mio intervento pubblicato su Zooumsud con il titolo La lettera. Un paese incerto e tutti in fila in cerca di speranza
http://www.zoomsud.it/primopiano/50736-la-lettera-un-paese-incerto-e-tutti-in-fila-in-cerca-di-speranza.html



Caro direttore, ieri pomeriggio (venerdì 12 aprile), sono andata alla presentazione del libro “Giorgio Napolitano. La traversata da Botteghe Oscure al Quirinale” di Paolo Franchi, edito da Rizzoli presso la Sala delle Assemblee della Società Napoletana di Storia Patria al Maschio Angioino.


Non ho alcun dubbio che si tratti, per autorevolezza dell’autore e importanza della materia, di un libro da leggere. Ma, onestamente, non per questo mi sono avviata da casa in maniera da giungere lì un’ora prima di quanto fissato per la presentazione (17.30; presentazione di cui, peraltro, mi sono accorta per caso, non essendoci stata una pubblicizzazione vistosa). Semplicemente, avevo previsto che ci sarebbe stata molta gente.

Per le 17.30, di gente non ce n’era molta, ce n’era moltissima. La sala brulicava di centinaia e centinaia di persone, tantissime in piedi, accalcate tanto che, ad un certo punto, mi è passato in mente che, ci fosse stata una scossa di terremoto o altro evento catastrofico, saremmo rimasti intrappolati.

L’ospite più importante, quello per cui la gran parte delle persone stava lì, è arrivato alle 17.33 e un minuto dopo la presentazione, coordinata dal direttore de “Il Mattino”, è iniziata. Hanno parlato Mauro Calise, Massimo Villone e Umberto Ranieri. Tralascio di dare un voto ai primi due e ti dirò che l’autocritica ai miglioristi fatta da Ranieri mi è sembrata seria e degna di rifletterci su.

Poi la parola è andata a Lui e s’è fatto, nella sala strapiena, un silenzio da chiesa, presto interrotto da applausi ripetuti e scroscianti. Quando ha finito (come era stato annunciato fin dall’inizio), ha lasciato la sala – stretto, come fosse una rock star, nella morsa di più di un centinaio di fotografi e di decine e decine di giornalisti e inseguito dalla stragrande maggioranza di quanti fin allora avevano compostamente e/o appassionatamente ascoltato i vari relatori.

Mentre, nella sala, in pochissimi restavano a sentire l’intervento finale dell’autore del libro, Lui, con grande sforzo, letteralmente correndo, le maniche della camicia bianca arrotolata, la giacca sulla spalla, visibilmente accaldato, guadagnava a fatica la macchina che doveva portarlo alla stazione, mentre intorno tantissimi continuavano a scattare centinaia e centinaia di foto da aggiungere a quelle già a lui scattate all’interno della sala.

Perché tutto questo, caro direttore?
Come ben sai, io devo ancora superare il lutto per Mario Monti (in cui, errori a parte della campagna elettorale, ho fortemente creduto e che vedo ora, almeno al momento, destinato ad un ruolo di molto inferiore a quello che, secondo me, meriterebbe) e non parlo, perciò, da tifosa.

Ma devo dirti che ho visto con chiarezza perché tanta gente stava lì per ascoltare, applaudire, invocare Matteo Renzi.
Perché su quello che lui ha detto si può discutere (personalmente, alcune le condivido, altre no). Ma il modo in cui le ha dette (per me era la prima volta che lo ascoltavo dal vivo), è stato, ti assicuro, decisamente “convincente” e “trascinante”.

Perché da tutto l'impasto del suo ragionamento restava soprattutto una cosa: il futuro è davanti a noi, il futuro, bello e buono, è possibile, è nelle nostre mani: non siamo un paese finito, anzi possiamo fare cose grandi, grandissime.

E tutta quella gente che lasciava la sala per seguirlo, non ti pare inseguire soprattutto questo, un vento della speranza?




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