sabato 1 giugno 2013

"Il corpo docile" di Rosella Postorino e il battesimo della bambina in rosa



Da lì, oltre l’intreccio delle foglie verdi degli alberi, si vede un angolo di mare, quieto nell’abbraccio della collina di dirimpetto (nella foto, ndr).

Fu un fiorellino, delicato fin quasi all’evanescenza, che faceva capolino nell’erba, tenera e profumata, a convincerla, finalmente, a  camminare da sola. Si avviò incerta, ma lo raggiunse, e, nel coglierlo, esplose in una felicità assoluta.

Aveva superato i due anni e stava, con la madre, in carcere. Vezzeggiata da tutti, da tutti coccolata. Tutti attenti alle sue esigenze. Il direttore pienamente disponibile ad assecondare quanto potesse renderle i giorni più allegri e liberi.

Ne ho conosciuti altri, non moltissimi in verità, di bambini che sono vissuti per qualche tempo nel carcere minorile, con le loro madri ragazzine. Ma a lei, che è stata con noi per un tempo più lungo, mi lega, con più forte affetto, una galleria d’immagini più ampia.

Con una sequenza particolare, successiva a quella dei suoi primi passi. Quella del battesimo, che la madre richiese per lei. Le foto della festa – tante facce felici, una torta immensa, il vestitino rosa della bambina, il volto intenso del prete, la serietà della madrina – riviste tanti anni dopo, darebbero il là, a chi c’era – ed eravamo davvero tantissimi – al gioco del “ma te lo ricordi?”, ma nessuno, a non saperlo, potrebbe dire: “è un carcere”.

Tra la mia esperienza e quella raccontata ne Il corpo docile di Rosella Postorino ce ne corre. Ma il suo libro ha richiami che rimandano troppo alle emozioni forti del mio lavoro perché io provi a recensirlo. Dirò, soltanto, che va letto. Perché la giovane autrice – è nata a Reggio Calabria nel 1978 – esplora uno degli aspetti più bui del nostro vivere civile: come si cresce, con quali fragilità e paure, quando la primissima infanzia è trascorsa dietro le sbarre? Ci si può mai liberare da un trauma di cui non si ha colpa alcuna?

In un’intervista concessa a Valeria Bellantoni di Calabria On Web, Rosella Postorino, editor Einaudi ed autrice, tra l’altro, anche di L’estate che perdemmo Dio, spiega:

«C’è una prigione in ogni mio romanzo, forse in ogni mio testo. La gabbia – del corpo, della famiglia, del lavoro, della malattia, del clan, della colpa come stato inevitabile – è la condizione di tutti i miei personaggi, che lottano per conquistare una libertà anche parziale, pagando sempre un prezzo molto alto, che passa sui loro corpi. È difficile essere liberi, per chiunque. Non credo a quelli che dicono che c’è sempre una scelta possibile. La scelta è molto spesso obbligata, dipende da fattori che esulano dalla buona volontà o dall’ostinazione alla felicità di ciascun individuo. Non è pessimismo, è semplicemente tentare di attribuire in modo corretto le responsabilità. Questa è la società dove ogni colpa ricade sul singolo: il fallimento, la povertà, la solitudine, il disagio psichico. Il carcere è il punto estremo di questo meccanismo perverso. Separando i giusti dagli ingiusti, esonera chi è fuori dalla responsabilità di chi è dentro. Invece chi è dentro è responsabilità nostra. Una società che non sa dare risposte ai più deboli e li confina in carcere non fa che svuotarsi la coscienza creando un ghetto dove ammassare i suoi scarti, che per due terzi sono infatti extracomunitari e tossicodipendenti. Nonostante la retorica del valore della vita umana, è difficile – dentro e fuori dal carcere – sentirsi trattati come esseri umani».

Pubblicato su Zoomsud  http://www.zoomsud.it/commenti/53333-qil-corpo-docileq-di-rosella-postorino-avere-meno-di-tre-anni-e-vivere-in-carcere.html


P.s. Dicono che un libro è scritto, dall'autore, solo per metà. L'altra metà ce la mette il lettore, quando tra quelle pagine s'immerge. Questo è un libro che prova a non eludere domande che anch'io mi pongo.


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