domenica 21 luglio 2013

L'aria malsana d'Italia e la semina nonostante il vento






Certo, poi, ognuno ha la sua vita, con i suoi personali dolori e le proprie private gioie. 
Ma è come se tutti, o almeno tantissimi, in Italia, vivessimo ormai dentro un’aria malsana, che aggiunge ogni giorno altri sensi di sgomento e sfiducia alla stanchezza e all’umiliazione di ritrovarci così.

Contesto che rende difficilissimo non solo alzarsi ogni mattino pronti ad adempiere, per la propria parte, i propri doveri di cittadino, ma, soprattutto, provare a farlo con fiducia.

Chi osa pensare in grande, proporre un dibattito alto? Pochi, pochissimi. Almeno all’evidenza. Tutti o quasi bloccati in una palude senza respiro.

Eppure. Bisognerà pure fare uno sforzo per pensare in prospettiva, per uscire, con la mente, dal baratro e riguardare l’orizzonte lontano, perché “chi bada al vento non semina mai, e chi osserva le nuvole non miete”. (Qoelet 11, 4)



Questo è quello che ho scritto su Zoomsud venerdì 19, anniversario della strage di via D’Amelio


Solo nell’autunno del 2010, per la prima volta, ho visitato la vecchia (e solitamente inaccessibile) Torre.

Mi occupavo già da tempo dei detenuti politici che, nell’ultima fase del governo borbonico, avevano conosciuto la nostra isola e Poerio, Castromediano, Nisco – ovvero gli stessi personaggi descritti dalla Banti in Noi credevamo e ripresi da Martone nel film omonimo (anche se nella fase in cui la loro prigionia si svolse a Montefusco, lo Spielberg italiano) – e tutti gli altri mi erano ormai diventati familiari.

Quando, nel marzo 2011, diedi conto dell’intero iter didattico che ci aveva portato alla pubblicazione di un volume di Racconti per Nisida e l’Unità d’Italia, descrissi così quella mia breve visita:
«“…una fortezza ovale in mezzo al mare,/i prigionieri in celle sotto l'acqua:/son patrioti incolpati di congiura,/poeti, ma anche chi parla soltanto/candidamente, non da sovversivo”. Herman Melville ha scritto queste righe per Castel dell’Ovo, ma possono rendere l’idea. Entrare da una piccola apertura nella pietra è sprofondare nel buio circolare, cui la luce di una potente torcia elettrica non toglie il freddo e l’assoluto isolamento. Ci sono celle anguste – chissà come ci si poteva stendere – con i ceppi scuriti dal tempo, certo, ma, forse, anche dal sangue. Piccolissime aperture in alto accedono solo all’interno: chi sta dentro nulla può sapere del cielo e del mare. Qui e là, alle pareti ci sono dei nomi e qualche graffito. Qualcuno ha disegnato un bambino, chissà, un figlio piccino».

E continuai raccontando un’emozione:
«Per tutto il percorso mi è cresciuto un sogno. 
Se potessero tornare per un solo giorno, giovani e liberi, sull’isola, forse avrebbero piacere ad affacciarsi su porto Paone o risalire i sentieri più impervi, respirando salsedine e natura mediterranea. Forse. Quello che di certo farebbero tutti con entusiasmo è partecipare ad un incontro del nostro Laboratorio di politica. (…) Personaggi noti ai più solo come nomi di vie, piazze, scuole, monumenti e per noi, in questi mesi, diventati – tornati ad essere – persone: con le loro fisionomie particolari, i singoli caratteri, le abitudini quotidiane, le piccole fisime e le grandi passioni. I volti intensi di chi ha vissuto con dignità, affrontando a viso aperto la lotta e le sue conseguenze, per un’idea. Pagata a caro prezzo e realizzata in parte. Gente che, dovendo di nuovo scegliere, di nuovo sceglierebbe la galera. Come il protagonista di quel grande romanzo di Anna Banti che è Noi credevamo: “E’ diritto di ognuno scegliere la libertà che gli conviene, e la mia era il carcere… Rischiare la morte e soffrire un lungo carcere per l’Italia era stata la mia scelta, la mia personale avventura: aspettarne privilegi e compensi mi sarebbe parso degradante”. Certe loro parole sulla Costituzione, sull’Italia unita, sulla scuola e la giustizia, così antiche e talmente moderne che si tratta, magari, di spiegarle come ogni sconosciuta parola, ma certo non di cambiarle».

Il progetto in questione – l’antologia di racconti ispirati a quelli della torre, elaborati in collaborazione tra scrittori e ragazzi – non è stato, oggettivamente, il più importante tra quelli di cui, fino ad ora, ho avuto l’opportunità di occuparmi a Nisida, ma lo è stato di certo sul piano soggettivo.

Perché mi emoziona profondamente l’eroismo semplice di chi, da Carlo Poerio a Paolo Borsellino (ucciso, con la sua scorta, il 19 luglio del 1992), spende la sua vita, senza tener conto di sacrifici e morte, onorando fino in fondo la sua dignità di cittadino, di persona.

Ed è stato un impatto emozionale forte, nel leggere Il Patriota e la maestra di Vito Teti ritrovare quel manipolo di martiri ed eroi, attraverso l’esperienza di Antonio Garcea, numero 26 dell’elenco dei 65 (tra cui 13 calabresi) condannati, inviati, dopo anni e anni passati nelle carceri borboniche, a Cadice per la deportazione in America nell’ultimissima fase del regime, dirottati poi dal figlio di Settembrini in Irlanda e rientrati dall’Inghilterra in Italia in gran numero, prima della spedizione dei Mille.

Scrive Vito Teti:
«.…la sera del 20 luglio i due vapori con i 1500 prigionieri incatenati attraccano a Nisida.
Chiunque si porti sulla deliziosa sponda di Baia, vedrà affacciare una piccola isola sulla cui più alta estremità fa deliziosa pompa un fabbricato, tanto che per chi lo mira mai non si sente sazio. La sua amena altezza, la sua posizione, i venti che per necessità vi son perenni, e che or impetuosi or lenti vi soffiano, fanno credere quello un sito più delizioso che mai al mondo si trovi (Bertòla 1862: 19).
Giovanna Bertòla evidenzia il contrasto tra la bellezza dei luoghi e le tristi condizioni delle persone che li abitano. Quel bellissimo posto «è un luogo di martirio al par d’ogni altro più crudele» (ivi: 19-20). 

Con parole simili, Nicola Palermo descrive Nisida e nota come un «luogo delizioso e grato» sia stato trasformato in «un luogo di tutto tormento, un luogo di dolore!» per millecinquecento condannati, trascinati da una lunga catena di ferro, che tirano gemendo, respirando «aere mefitico» nelle grotte, «viscere della terra» (Palermo 1863: 30-31). In una «deliziosa grotta», la «dispotica mano», aggiunge Bertòla, ha rinchiuso mille e cinquecento «infelici condannati, che trascinano, senza doversi stancare, non corta e non leggiera catena». Umidità e oscurità, rumore di catene, molestie di insetti «schifosissimi e abbondanti»: l’uomo è rinchiuso come «belva feroce», marcisce «nella miseria e nell’ignoranza», in un luogo dove prosperano vizi e depravazione. Garcèa e i suoi compagni ricevono la «zuppa in certe tinozza di legno»: quattro once di fave, cotte appena, «mischiate ad un quarto di oncia d’olio, un nerissimo panello». Non ci sono scodelle: i prigionieri, vinti dal prolungato digiuno, si fanno versare la zuppa nel cappello o nel fazzoletto o per terra. Assaggiata la zuppa, preferiscono il solo pezzo di pane. Solo in pochi riescono a dormire mentre gli insetti succhiano loro il sangue, tra i rumori delle catene.
Il 10 agosto arrivano gli ufficiali di una commissione di polizia: indagano se fra i prigionieri ci siano elementi ricercati. Garcèa viene individuato e insieme a centosessanta siciliani viene portato a Napoli per essere trasferito a Capua. (…)
Nella notte tra il 9 e il 10 marzo del 1849 Garcèa e i suoi compagni vengono riportati a Nisida e ne sono felici, perché ritengono che là avrebbero ricevuto un trattamento migliore. Nisida è sotto assedio per il timore che un’incursione di navi siciliane possa liberare i prigionieri. Bertòla descrive la solidarietà immediatamente scattata tra i prigionieri: «L’animo che nutre verso l’amico un affetto vero, un affetto costante, quando lo vede in condizione triste e bisognosa, non soffre no, d’assoggettarsi a qualunque privazione, ma gode e gioisce quando giunge il primo a prestargli soccorso e ristoro!» (ibid.). I carcerati di Nisida, infatti, all’arrivo dei loro compagni si privano di una parte della loro razione di cibo; gli ammalati all’ospedale vi rinunciarono del tutto. Garcèa rimane a Nisida per ventitré, terribili, mesi in cui la crudeltà del carcere viene aggravata dall’esperienza della solitudine, dall’incertezza sui tempi di svolgimento e sull’esito del processo, e soprattutto dalla notizia della morte del fratello Graziano, caduto sotto il forte di Marghera combattendo per Venezia, secondo la ricostruzione di Gian Paolo Garcèa (1960), durante la battaglia del 25 e 26 maggio 1849, terminando «in tal modo gloriosamente la carriera del soldato e della vita a 21 anno [sic]», come Alessandro Poerio, fratello di Carlo, morto combattendo per la stessa causa».

Mi commuove questa lettura in giorni in cui le notizie che si accumulano, ormai da troppo tempo, sulla nostra vita politica, economica e sociale, inducono più che alla fiducia allo sgomento, se non alla disperazione di non riuscire a rivedere un po’ di luce.

E mi tornano in mente due frasi importanti. Una di Corrado Alvaro: “La disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”. E l’altra di Paolo Borsellino: “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare. Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me”.


Del libro di Teti, ho scritto, sempre su Zoom, in un articolo dedicato ai finalisti del premio Tropea:

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