venerdì 30 agosto 2013

Il bacio del pane di Carmine Abate






L’odore più bello? Quello del pane che cresce in un forno a legna. Il sapore più buono? Quello del pane caldo irrorato d’olio d’oliva (senza dimenticare il pane bollito, che non è roba da vecchi cadenti, ma una squisitezza che conforta lo spirito).

Ho visto centinaia di volte fare il pane da nonne e zie e da mia madre, che ancora lo fa e, quand’ero piccola, ho avuto la fortuna d’entrare più d’una volta nel forno sotto il lastrico a raccogliere, sui mattoni ancora brucenti, le briciole del pane biscottato.

Nello stanzone di fronte, c’erano ancora le madie antiche, utilizzate da più generazioni di nonne che avevano trasformato in pane la farina sudata dai loro mariti, che avevano seminato e mietuto e trasportato poi il grano ai mulini (chilometri a piedi, i sacchi sugli asini e, durante la guerra, tempeste di bombe sulla testa), aiutati, anche dai figli più piccoli, al momento della raccolta, nel vento caldo della prima estate.

Non metto mai il pane sottosopra, sarebbe come offendere mio padre, che lo considerava un gesto insopportabile di disprezzo verso una fatica sacra e, se mi capitasse di dover gettare un tozzo ammuffito, non potrei farlo – perché così mi hanno insegnato – se non dopo averlo baciato.

E’ davvero un bel titolo quello dell’ultimo libro di Carmine Abate.



Questa la mia recensione su Zoomsud, http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/56756-recensione-il-bacio-del-pane-di-carmine-abate.html

Una diecina di ragazzi, intorno ai sedici, diciassette anni, di cui sei “più affiatati: Bruno il Romano, Vittorio il Milanese, Emilia la Germanese, Marta la Fiorentina, figli di coppie nostrane o miste, che ogni anno tornavano in vacanza giù da noi, e infine Mauro e io, nati e cresciuti a Spillace”. Le vacanze estive in un paese della Calabria, la sveglia a mezzogiorno e la corsa al mare, con le Vespe, nel primo pomeriggio, le notti accaldate nella piazzetta col Monumento ai caduti, la gita in un luogo magico: “oltre la barriera di tamerici e oleandri dai fiori sgargianti, fummo risucchiati nel ventre fresco del Giglietto. Là in fondo, proprio al centro di una parete concava, splendeva come un miraggio la cascata. (…) Fu allora che prese il sopravvento la voce del Giglietto, un fruscio di foglie ritmato dal canto degli uccelli e delle cicale, da sibili e bisbigli misteriosi, dal fragore della cascata. A tratti, negli interludi della melodia, si insinuava un silenzio improvviso, come la pausa calcolata di un’orchestra. Pochi attimi, ma sufficienti per farmi sentire davvero nel paradiso terrestre, circondato da amici veri, a due passi da Marta che ogni tanto alzava gli occhi dal libro per incontrare il mio sguardo. Ero felice, avrei voluto urlarlo al mondo intero”. 

Non è solo il reciproco, tenero, innamoramento a segnare l’estate della crescita di Marta e Francesco, ma l’incontro, imprevisto, con un uomo che al Giglietto si nasconde e che a poco a poco racconta loro la sua storia, di calabrese emigrato a Milano che crea un’impresa edilizia, ma, sottoposto a pressioni e ricatti della ‘ndrangheta, fino all’uccisione del fratello suo socio, aveva prima risposto con dignità e coraggio, e poi aveva cercato, rifugiandosi nel luogo dove, da giovane capellone, aveva vissuto l’estate più felice, solitudine e sicurezza.

A facilitare l’amicizia tra i due ragazzi e Lorenzo, il pane di casa fatto dalla madre di Francesco, “«un pane da resuscitare i morti, non quella specie di spugna inodore che si compra nei supermercati» diceva mio padre”: “L’uomo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un coltellino svizzero, appoggiò il pane all’altezza dello sterno e con la lama più lunga ne tagliò due fette. Quando si abbassò per mettere il pane nel sacchetto, una delle fette gli cadde per terra sollevando una nuvoletta di polvere. L’uomo la raccolse subito, con apprensione. «Buttatela via, è tutta impolverata» gli consigliai, convinto che volesse mangiarla. Lui mi guardò con uno sguardo di disapprovazione: «Il pane non si butta così, come una pietra senza valore. Il pane è vita, ci vuole troppa fatica per farlo». Diede un bacio sul lato pulito della fetta e andò a posarlo sotto il fico, dove becchettavano affamati tre o quattro uccelli. Poi concluse: «Il pane va rispettato»”.

Il bacio del pane di Carmine Abate, dal 27 agosto in libreria, è un romanzo di formazione delicato, con i toni quasi di un apologo lieve: l’amore, la solidarietà, il rispetto della propria e altrui dignità, il coraggio come lievito che fa crescere il bene, diventando pane che nutre e fa crescere, i singoli e la comunità.

giovedì 29 agosto 2013

L'estate di Francesca


Quindici giorni in Mozambico, prima dello sprint finale per la laurea, a dare una mano in un centro nutrizionale della Comunità di sant'Egidio. Sulla sua bacheca fb ci sono centinaia e centinaia di foto di un'esperienza che definisce "meravigliosa", ma preferisce raccontare a voce.

Le foto più belle sono quelle dei suoi occhi (ma non credo le farebbe piacere le riprendessi qui). 
Per i quali, mutata mutandis, andrebbero bene le parole con cui saluta l'Africa:

Immensa. (come la Speranza..)
Intensa. (come Forza dell'Amore..)
Indimenticabile. (come solo certi Occhi sanno..)

lunedì 26 agosto 2013

La conca di Occhio/2


Dopo ferragosto, è arrivato l'acquazzone che tutti quelli che hanno un pezzo di campagna, un giardino, un orto sognano, perché, lo si ripete spesso, "acqua d'agosto, olive, miele e mosto".

A me fanno piacere soprattutto due cose: le mele cotogne che prendono carne e turgore e la riapparizione sul bagnasciugna, delle conchiglie.

Minuscole e bellissime. Non tante, ma abbastanza per esserne grata.

sabato 24 agosto 2013

Discorrendo di libri (calabresi)







Solido. Equilibrato. Concreto. Uomo che guarda all’eterno, nell’orizzonte dell’intero mondo, e che sta compiutamente dentro il suo spazio e il suo tempo, Antonino Caserta dà voce anche poetica ad una Calabria cattolica e/o ad una cattolicità calabrese poco esplorata.

E’ nella concretezza della vita, quella familiare, la moglie, i figli, i nipoti – Sale, sale, Venere, /dal sud mediterraneo /all’orizzonte del Massiccio. /Vedrete, bambini, /lo sguardo del nonno /scendere sopra un raggio, /risalire poi col vostro. (Da qui, da lì) – e quella dell’impegno lavorativo e sociale,
che si spende il suo essere cristiano.

Pensieri e parole che trovano fondamento in una fede sincera: Tu m’hai dato pensieri /di una parola calda. /Per questo ti rendo grazia /come cardo che fiorisce /nel cocente turbine del sole.
(La tua Parola)

Le esperienze della vita l’hanno condotto anche lontano, ma è la Calabria la terra dell’avventura di Antonino Caserta: Seguo /come Ulisse /il vento /e mai /porto /emerge /dove legare /la gomena /lunga /dei viaggi, /le vele /ammainando /per la notte, /pronte ancora /a salpare /nel giorno /nuovo. (Marina di Rossano).

Un’avventura ricca di azioni – nel lavoro e nell’attività di promozione culturale e sociale del reggino e, in particolare, del catonese, il maestro Caserta ha profuso grandi doti di educatore – e di riflessioni. Di parole a lungo maturate nel confronto con il senso dell’umana esistenza, i problemi della sua terra, e la stupefacente bellezza d’una natura, capace anche di tragedie immani (come il terremoto-maremoto, che non aveva risparmiato la sua famiglia): Non avevo pastelli e tavolozze,/non avevo pennelli né colori, /non avevo né arpe e né violini. /Eppure a me urgeva catturare /armonie di forme colori e suoni /perché non un attimo svanisse /della primavera che esplodeva. (Primavera Jonia)

E guarda anche a quella piccola borghesia operosa e colta, che affonda(va) la sua sensibilità nella cultura popolare più antica e genuina e trova(va) nella religione le motivazioni di un impegno sociale, fuori da ogni limitato interesse di parte e di partito. Un cattolico democratico, che non disdegna le forme popolari, ma autentiche della fede, e si sente responsabile della costruzione della comune città degli uomini. Amando Reggio fino al dolore profondo della (quasi) invettiva: L’arcobaleno non s’annuncia. /Qui pigrizia da deserto /Miopia imbelle d’illetterati /Calcoli furbeschi levantini /Opache presunzioni d’anfitrioni (Reggio 1993)

Preziosa la galleria di “volti”, che conclude questa raccolta. Una serie di epigrafi (tutte interessanti, alcune folgoranti) su quella che è stata la Calabria e specificamente la Calabria popolare e cattolica fino alla metà (in qualche caso quasi i due terzi) del secolo passato. Un’epoca travolta dagli affrettati cambiamenti degli ultimi decenni del 900 e dall’inerzia della prima fase degli anni 2000. Che torna, in tutta la sua concretezza e verità, nelle parole di Antonino Caserta.


Dalla mia prefazione a Epoche, poesie 1993-1996, di Antonino Caserta edito da Città del Sole


Su Zoomsud sono apparse queste due mie recensioni:


Straci di Giuseppe Tripodi edito da Calabria Letteraria


Durante il Giubileo del 1950, mio zio prete portò a Roma i suoi genitori. Andarono anche a visitare un qualche museo, che, si tramanda nei racconti familiari, lasciò mia nonna molto perplessa: “Chi vìttimu? Du straciceddi..”
E’ la storiella che mi viene subito in mente alla parola strace, insieme ad storie simili di contadini e gente semplice stupefatti che si potessero considerare importanti piccole schegge marroncine tanto comuni.

Le straci – termine di chiara origine greca, che indica i cocci di terracotta, usati, tra l’altro, per votare l’ostracismo – “in Calabria (…) servivano per riempire i vuoti nella muratura fatta a secco o con pietra irregolare”.

Che le straci greco-romane, ritrovate ampiamente nel nostro territorio, vadano conservate e trasmesse quale memoria storica non ne dubita alcun archeologo. Giuseppe Tripodi, professore, saggista e scrittore, ritiene che vadano salvaguardate con cura anche le parole-straci.

Ovvero quelle parole che, un tempo, fino ad un cinquantennio fa, sono state la lingua della fascia jonica calabrese «che va da Mélito a Bova, tra le vallate dell’Amendolèa e del Tuccio» e che sono ormai niente più che rimasugli, talvolta riciclati, spesso dimenticati d’un idioma che corrispondeva perfettamente ad una società contadina: «infatti nella Calabria contemporanea la scomparsa dell’economia contadina ha determinato l’eclissi del lessico (legato alle stagioni, agli arnesi, alle tecniche) e del vulcanico laboratorio espressivo collegato alla vita comunitaria e fatto di imprecazioni, soprannomi, folclore, apparati paremiologi».
Scorrono così in Straci, edito da Calabria Letteraria, parole evocative di un mondo passato (da armacera, il muro di contenimento dei terreni, a buffa, ovvero rana a desìu, il desiderio, a sena, complicato pozzo d’acqua, a ‘naca, la culla rudimentale e così via) e anche storie e fatti di persone, «figure a loro modo carismatiche ed educatori informali in forza dell’esempio, diretto e indiretto, che da essi emanava»: parole e storie, eredità di un’appartenenza antropologica.

Un dizionario di parole che «si sono disperse come molecole di gas allo stato libero», sostituite «dalla lingua ibrida e incolore della televisione (sport più telenovelas), che appare incapace di andare oltre la civiltà delle cattive immagini e delle parole volgari».

Che senso ha riportare alla luce suoni e significati del lessico che è stato la lingua materna dei calabresi della fascia jonica meridionale fino alla metà circa del Novecento? “Riesumare queste parole – sostiene Tripodi – può rispondere a un disegno di archeologia linguistica o anche a un’esigenza emotiva combinata con qualche rimasticatura teorica nella convinzione che in molti casi il linguaggio ha un’innegabile capacità evocativa del tempo delle origini e assume “una grande importanza affettiva e conoscitiva”».

Cui, forse, potrebbe aggiungersi una percezione insieme di testa e di cuore: che la consapevolezza piena di cura della propria eredità antropologica, storica, linguistica sia l’antidoto più potente al farsi ostracizzare dal presente e dal futuro, supinamente trascinati dalla corrente del tempo come da una sciumara in piena.


L’Operazione Baytown – Lo sbarco degli Alleati in Calabria, 3 settembre 1943 di Giuseppe Marcianò edito da Laruffa

L’ora X, quella che segna l’inizio della nostra storia contemporanea, scattò alle 4.50 del mattino, quando “con appena venti minuti di ritardo sulla tabella di marcia, il comandante Nicholl, principale maestro di spiaggia, ordinò (‘Go’) ai LCA di spingersi sulle spiagge”.

Provenienti dalla Sicilia, già occupata da quasi due mesi, e precedute da un imponente quanto inutile fuoco di sbarramento, la Prima Divisione canadese e la Quinta Divisione britannica, che formavano parte dell’Ottava Armata, sbarcarono in forze sulle coste reggine, occupando rapidamente la città. 

In coincidenza con il quarto anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale, il 3 settembre del 1943, settanta anni fa, cominciava così da Reggio l’ancora lunga e drammatica riconquista, da parte degli Alleati, dell’Europa continentale.

Giuseppe Marcianò ricostruisce in Operazione Baytown – Lo sbarco degli Alleati in Calabria, 3 settembre 1943, ripubblicato da Laruffa dieci anni dopo la prima edizione, i contesti - militare, politico e sociale - in cui avvenne un’azione di limitato valore bellico e di forte impatto simbolico.

Condotta, secondo il giudizio dello stesso comandante dell’VIII Armata, il generale Montgomery, in maniera tutt’altro che brillante – “Se la preparazione e la condotta della guerra in Sicilia furono cattive, ancora peggiori furono i preparativi per l’invasione dell’Italia e la successiva condotta della campagna in quel paese. (…) Ci proponevamo di invadere l’Europa, senza avere idee chiare circa il modo di sviluppare le operazioni, una volta riusciti a sbarcare” – l’operazione Baytowm non incontrò resistenza effettiva né nelle forze tedesche in precipitosa ritirata né nell’esercito italiano.
Marcianò riporta, a questo proposito, alcune considerazioni, di “straordinaria lucidità e franchezza” del generale Carbone comandante del settore calabro della piazza militare marittima di Messina-Reggio Calabria: “Principalmente la truppa (…) era scossa per i bombardamenti aerei, navali e terrestri che si susseguivano senza posa e con intensità violentissima da oltre quindici giorni, vivendo in mezzo ad una popolazione anch’essa stanca ed esaurita, priva d’assistenza, essendo fuggiti tutti gli organi statali e parastatali, vessata fino al giorno precedente dalle truppe tedesche e che aveva subito una vera invasione di oltre 60.000 uomini inquadrati o sbandati, provenienti dalla Sicilia… (…) la stanchezza e principalmente la propaganda che gli anglo-americani non erano degli invasori ma dei liberatori, la decisa inferiorità nostra di fronte al nemico, l’assenza assoluta di mezzi aereonautici e di batterie antiaeree e antinave efficienti, aveva convinto i quadri inferiori, specie la truppa, che ogni resistenza sarebbe stata vana per mancanza di qualsiasi aiuto”.

Nella prima giornata di operazioni, “gli Alleati avevano conquistato Reggio si erano spinti lungo la statale tirrenica fin nei pressi di Scilla e su quella ionica fino a Melito di Porto Salvo catturando mille soldati italiani a Pellaro. Finora non era stata incontrata alcuna resistenza da parte dei tedeschi, e anche nell’entroterra gli Alleati, sia pur ostacolati dalle difficoltà del terreno e dalle interruzioni stradali, avevano compiuto notevoli progressi. Le perdite canadesi ammontavano a soli nove feriti, nessuno dei quali faceva parte dei battaglioni d’assalto, mentre avevano catturato 3000 soldati italiani e tre tedeschi”.

Mentre le operazioni militari si spostano verso l’impervio Aspromonte, Reggio – stremata da mesi di bombardamenti, che avevano ridotto di molto la popolazione residente (dei 120 mila abitanti, ne erano rimasti meno di 20 mila, mentre tutti gli altri si erano sparsi nelle campagne circostanti) – vide l’instaurarsi di un Governo militare alleato che, oltre i problemi amministrativi, tra cui la sostituzione di alcuni esponenti fascisti (per esempio, quella del podestà prof. Barbaro, una delle poche autorità rimaste in città durante i bombardamenti) con personalità già socialiste e comuniste o del nuovo partito cattolico, dovette affrontarne “quello dell’alimentazione, che si identificava, in gran parte, con quello dell’approvvigionamento della farina”. Se la produzione locale dell’olio, elemento base dell’alimentazione insieme al pane e alla pasta, superava il fabbisogno, la farina doveva essere importata da altre località: “A questa insufficienza strutturale si aggiungevano le particolari difficoltà del periodo bellico (…) In un’epoca in cui, in nome di certe diete ipocaloriche, il consumo di un solo panino deve essere centellinato fra i vari pasti della giornata, potrà sembrare strano che una razione di 100 grammi di pane fosse sinonimo di una vera e propria carestia. Il ripristino, poi, all’inizio del 1944, della razione di 150 grammi fu considerato soltanto il primo passo verso il raggiungimento della razione di 200 grammi, che rappresentava la prima soglia di risicata normalità. Inoltre la razione di pane non comprendeva quella di pasta, che era scesa dai quattro o cinque chilogrammi mensili dei primi anni di guerra al chilogrammo e mezzo dei primi giorni del 1944”.

“Difficile dare una valutazione complessiva – scrive Marcianò concludendo il suo Operazione Baytown, libro ricco di documenti inediti e di un notevole apparato iconografico – di questa particolare e curiosa operazione militare. Il primo obiettivo assegnato a Montgomery (assicurare la libertà di navigazione nello Stretto di Messina) era stato facilmente raggiunto nella stessa giornata del 3 settembre. Il secondo obiettivo, consistente nell’impegnare le divisioni tedesche di stanza in Calabria al fine di aiutare quanto più possibile la V Armata di Clark, a Salerno, era così vago e contraddittorio da non poter essere in alcun modo realizzato. (…) Certamente l’avanzata del 13° Corpo, lungo le tortuose strade calabresi fu lento. (…) In ogni modo, con l’arrivo dei canadesi e degli inglesi, finiva in Calabria quella guerra che il regime fascista, abbagliato dai miraggi di una facile vittoria aveva iniziato nel giugno 1940”.



http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/56538-recensione-straci-di-giuseppe-tripodi.html

http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/56303-la-recensione-l-operazione-baytown-di-giuseppe-marciano.html

lunedì 19 agosto 2013

Christian Bobin, la scrittura e l'amore



 
da Luce del Mondo, Gribaudi

Su un blog, che consulto spesso, Frammenti Del Tredicesimo Mese http://elenapetrassi.blogspot.it/ leggo questo bel pensiero del poeta e scrittore Christian Bobin: “Scrivere è rispondere, rispondere a delle parole che mi vengono indirizzate dalla vita. È come entrare in una conversazione intima e ininterrotta con tutto ciò che è vivente”.

In qualche modo, scrivere parole vere ha a che fare con l’amore buono di se stessi, con la cura della propria solitudine. Appartiene allo stesso Bobin la frase: “Amare significa aver cura della solitudine dell'altro, senza mai pretendere di colmarla né conoscerla”.

domenica 18 agosto 2013

La pioggia di Pellaro





La pioggia sta arrivando anche a Pellaro (G. D'Annunzio).

Mi ha colpito molto, subito dopo ferragosto, questo stato fb, in ore in cui, come talvolta capita, sembrava che volesse proprio diluviare, ma non è scesa neppure una goccia. A Pellaro centro non piove quasi mai, quando succede ad Occhio se ne parla per lungo tempo con stupita meraviglia.

Mi ha colpito perché ho pensato che fosse un’invenzione di Caterina Azzarà – che poi, infatti, ha commentato: “la frase era solo frutto della mia fantasia perché mi piace pensare che la pioggia arrivi anche da noi, che lavi tutto e si possa finalmente essere sorpresi dall'odore della terra bagnata e nuova. Anzi, ritorni l'odore di antico, di come eravamo e di ciò che siamo stati” – ma mi sono voluta regalare il dubbio che, invece, facesse parte magari, chissà di un’epistola del vate, giusto per continuare a cercare scritti su Pellaro e dintorni.




Rimando a questi due pezzi su Zoomsud:

Cosimo Fazio, Philippe Daverio, G. D’Annunzio: frammenti d’un agosto reggino: http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/56431-cosimo-fazio-philippe-daverio-g-d-annunzio-frammenti-d-un-agosto-reggino.html

Il Mimì di M. La Cava e l’autocoscienza di Reggio: http://www.zoomsud.it/commenti/38347-il-mimi-di-m-la-cava-e-lautoscienza-di-reggio.html