domenica 13 aprile 2014

Scrivere a Nisida






Un ragazzo/una ragazza che arriva a Nisida non ha, quasi mai, un atteggiamento naturalmente positivo rispetto alla scuola. Ci inizia ad andare perché il suo andarci fa parte degli obblighi che gli vengono imposti. E’, quindi, una grossa sfida, per i docenti, provare a innestare curiosità e interessi che intacchino la “chiusura” verso tutto ciò che sia sintetizzabile come “istruzione”.

Delle quattro abilità linguistiche di base – ascoltare, parlare, leggere, scrivere – la scrittura viene spesso percepita, dai ragazzi di Nisida, come meno ostica rispetto ad un dibattito o ad una lettura che implichi la comprensione del testo.

Superato il fastidio iniziale della pagina bianca e del “come posso cominciare?” (“Come vuoi… come me lo diresti a voce…"), il ragazzo/a si avverte più “protetto”/meno esposto in uno scritto che in una conversazione e, questo, lo rende più disponibile a “raccontarsi”.

Soprattutto se:

-   si ha l’accortezza di non porgli domande troppo dirette (mai: parlami di tua madre; piuttosto: quali sono i tuoi cibi preferiti, dove una frase sulla madre comparirà);

-          si valorizza continuamente lo sforzo che fa per scrivere qualunque sia il risultato;

-       si riesce a trasmettere il senso che il lavoro che sta facendo è, nello stesso tempo, un lavoro personale e un lavoro collettivo: che ognuno, dando il massimo, contribuisce al buon risultato di tutti e, nello stesso tempo, il buon risultato di tutti, ha un positivo effetto sui risultati del singolo.


Il ragazzo/a che scrive:

-          ottiene, almeno in quel momento, un abbassamento delle sue ansie e tensioni, con positiva ricaduta sull’intero gruppo;

-          ordina i suoi pensieri, reazioni e sentimenti, esercitandosi a pensare prima di agire, a cogliere i nessi di causa-effetto tra le proprie azioni e le loro conseguenze;

-          impara a… scrivere, cosa che gli dà una particolare fiducia nelle sue possibilità (perché, di solito, parte esattamente dal punto opposto: che non sa scrivere, che non è cosa per lui, ecc. ecc.)

E, questo, vuol dire, che, innestato un processo positivo, diventa più semplice per i ragazzi cominciare ad accumulare risultati positivi (scrittura più fluida, meno errori di ortografia, una maggiore chiarezza di pensiero, un uso più articolato della fantasia).



II

Nel nostro Laboratorio di Scrittura,

-          i ragazzi scrivono a mano e, talvolta, ripassano i loro testi al computer. Considero l’uso del computer una grande risorsa in generale e anche nello specifico della scrittura, ma, per quanto concerne il nostro relativo Laboratorio, mi sembra più opportuno (poiché nessuno strumento è neutro) un rapporto meno mediato, più fisico, tra il ragazzo e un gesto (quello dello scrivere) che (lettere ai familiari a parte) gli è ben poco abituale;

-          spiego, in generale, quando la “e” deve essere o meno accentata, ma non correggo mai, sul foglio del ragazzo, gli errori di ortografia se non dopo mesi e mesi che sta in classe e quando è lui stesso che, ormai più fiducioso di sé, chiede di capire se ci sono parole scritte in maniera sbagliata (l’ortografia l’ho sempre corretta sul foglio da stampare, per evitare il per me insopportabile effetto Speriamo che me la cavo);

-          non correggo mai neppure la sintassi: anche lì dove non è formalmente perfetta, è troppo legata al modo di pensare e di sentire: ogni intervento in materia snatura la genuina sensibilità del ragazzo, lo convince che la scrittura è qualcosa di artificioso, in cui deve nascondersi e/ o mostrarsi altro da sé (ovvero l’esatto opposto di una scrittura che abbia effettivamente senso per lui e per chi lo voglia davvero leggere).



III

L’esperienza più recente, quella in atto dal 2008, che ha portato alla pubblicazione di cinque volumi di Racconti, raccorda in maniera sempre più chiara due elementi:

-          da una parte il riconoscimento che qualsiasi ragazzo, anche quello più relazionalmente difficile e cognitivamente deprivato ha delle cose da dire: che possono essere più o meno formalmente corrette, più o meno originali, più o meno ben espresse, ma che, tutte, vanno ascoltate con attenzione e valorizzate;

-          dall’altra la consapevolezza che il riconoscimento di sé, il rafforzamento delle competenze, la disponibilità dei ragazzi ad investire ancora tempo ed energie nella fatica della scrittura passa dal “rispecchiamento” che gli viene offerto.

La mediazione della “riscrittura” da parte di un esperto di parole di quanto scritto dai ragazzi corrisponde a due obiettivi. Il primo, che riguarda il non semplice rapporto carcere-territorio, consiste nel restituire il messaggio, all’esterno, nella sua interezza, ma deprivato della sempre possibile strumentalizzazione delle singole storie.

Il secondo, invece, riguarda più specificamente i ragazzi, per i quali vale particolarmente il principio “tu che mi guardi, tu che mi racconti”: perché rileggere le loro storie come trascritte da un altro consente di operare sia un processo di distanza che un processo di identificazione. Favorisce, cioè, nei ragazzi/e, la creazione di spazi di ripensamento, la presa di coscienza della propria realtà, l’elaborazione, possibile, di una diversa proiezione di se stessi.



IV

Un aspetto della scrittura che mi sembra particolarmente affascinante è il suo essere semplice, sobria, quasi povera. Perché, per scrivere – a parte qualcosa da dire – bastano un foglietto di carta e una biro, anche una matita. Che, con così poco, si possa fermare per sempre un pensiero, un’emozione e condividerli con gli altri, è una potenziale ricchezza per ciascuno, da valorizzare in ogni contesto (altra cosa è il pubblicare, che meriterebbe un discorso a parte). Ma, anche, un antidoto educativo, in una società in cui, nonostante la crisi economica generale ormai in atto da anni, una parte dei ragazzi è indotta a crescere con la convinzione che il possesso di cose, magari anche utili ma non certo indispensabili (come il modello più accessoriato di telefonino), sia elemento costitutivo dell’essere. E, in un luogo, come il carcere minorile, dove – senza tralasciare le gravi e molteplici cause personali, familiari e sociali di tale deriva – più facilmente si approda quando la giovinezza ruota sull’acquisizione, facile, rapida e illecita, del denaro.

Un altro aspetto della nostra, non solo recente, esperienza di scrittura che mi piace evidenziare è il processo di spostamento dello sguardo del ragazzo che, anche con la scrittura, proviamo a suggerire. Sia quando abbiamo cercato, con la Trilogia dei Racconti per Nisida, di dar loro la possibilità di un confronto altro col tempo e lo spazio della loro quotidianità. Sia quando abbiamo utilizzato in maniera diversa la grammatica e la sintassi come coordinate della (ri)costruzione dell'io.

Se richiesti, i nostri ragazzi presentano, di solito, una disponibilità a completare i classici esercizi grammaticali relativamente alta e, in ogni caso, molto più alta, che quella, per fare un esempio, di raccontare la trama di un film. Assumono, infatti, l’esercizio non come attenzione alle complesse modalità della lingua, quanto, piuttosto, come un’accettabile modalità di passare il tempo della lezione non pensando.

Portare l’attenzione su come le regole della lingua non siano una sorta di cruciverba da fare innestando una specie di pilota automatico (e vada come vada), ma fanno parte della quotidianità anche di chi non le conosce (chiunque, anche privo di competenze specifiche, comprende bene la variante tra: vado a Roma e vengo da Roma) apre a curiosità culturali che possono innescare processi di crescita.



V

Un ragazzo che scrive e, soprattutto, che scrive qualcosa, anche minimamente intima, è (che le esprima o meno) pieno di domande sul giudizio che l’adulto dà del suo scritto e, anche, di sospetti, sull’uso che, eventualmente, ne possa fare. Questi sospetti vanno decostruiti dall’interno, rispettando quanto ciascuno ha scritto e quanto non ha scritto e mostrando che, comunque, qualunque cosa abbia espresso, ogni ragazzo merita ascolto e considerazione.

Che una persona gli restituisca sotto altra forma quanto lui ha scritto consente ad ogni ragazzo di “vedersi” (ma vedersi in maniera “tranquilla”, non sotto giudizio), di prendere atto che un pezzetto di quella storia è sua (che vuol dire anche che, quella storia, la vorrà leggere, per ritrovare tutti i suoi contributi), di consolidare il pensiero che, evidentemente, è capace di fare anche cose “buone”, anzi che lui e i suoi compagni possono fare cose buone, ovvero che non tutto è “già dato”, ma che, forse, magari, chissà, può anche ipotizzare un cambiamento nella sua vita.

A questo si collega un elemento che a tutti gli operatori di Nisida (direzione, educatori, agenti, formatori ecc. ecc.) sembra essenziale per un ragazzo in carcere: evitare ogni ulteriore “separazione”, “marginalizzazione”; “marchiatura”, quindi costruire continuamente occasioni di scambio: in maniera che le voci dei ragazzi arrivino all’esterno e che dall’esterno arrivino altre voci. Insomma, che si creino condizioni perché i ragazzi possano essere conosciuti al di là del reato – persone in crescita e non anni di pena – il che significa, anche, che la società nel suo complesso deve imparare a farsi carico di problemi che sono problemi della comunità.



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