sabato 11 ottobre 2014

Nisida, l'inizio del nuovo libro






Mattinata d’ottobre. Ancora quasi estiva. Col sole luminoso e la temperatura alta. Da dove sono seduta io, la finestra inquadra una pittura d’altri tempi: cielo azzurro, mare azzurro, colline azzurre: sfumature diverse d’un unico colore.

Siamo all’ultima parte del secondo incontro tra Daniela de Crescenzo, giornalista-scrittrice, e i ragazzi. L’atmosfera, non priva qualche ora prima di serpeggiante tensione, è ora molto distesa. Un po’ perché siamo in pochi (buona parte del gruppo è passata ad altri laboratori). Molto perché, con una buona dose di domande maieutiche, i ragazzi trovano finalmente le parole per dire il disagio di questo nuovo inizio. “Io al futuro non ci penso proprio. E che ci devo pensare? Mi devo fare ancora 13 anni, qualunque cosa dico è una cavolata”. L. esprime, con più rabbia di altri, una difficoltà comune anche a chi dentro ci deve restare ancora per poco.

Futuro è una parola tabù per molti dei ragazzi di Nisida. Perché o si configura come la continuazione della loro precedente esperienza e, quindi, prevede ancora reati e ritorno in carcere (“La mia vita è finita già”, dice F.) oppure è difficilmente immaginabile.

O, meglio, la si può immaginare come : - un’esistenza tranquilla, senza scosse, che ti fa mettere “la testa sul cuscino” la sera; - il risultato di una scelta in nome di un figlio e, più raramente, d’una fidanzata; - lo sbocco di un’insuperabile stanchezza nei confronti della vita adrenalinica eppure disastrata fin lì condotta. Ma è un’immaginazione debole, che non riesce ad andare oltre astratte definizioni: non trova sogni, attese, eventi concreti in cui incarnarsi e di cui parlare.

Che il tema sarebbe stato tutt’altro semplice da affrontare, lo sapevamo i partenza. Che fosse un tema necessario, ce lo conferma ciò che accade proprio quando, abbassatesi le tensioni della prima parte della mattinata, un ragazzo dice: Beh, io adesso ho scritto, ma tra un mese esco, e allora chi me lo darà il libro che dobbiamo fare? Io l’assicuro che glielo manderemo, ma Daniela fa qualcosa in più. Chiede: di dove sei che te lo porto io?

Lui risponde e il breve, rapido scambio di battute diventa, incredibilmente, un duplice, contemporaneo, riconoscimento. “Ma io – dice la giornalista – ho scritto di te quando avevi dieci anni, ho parlato pure con tua mamma” e il ragazzo conferma, ricordando l’articolo “grande, riempiva la pagina, con quel titolo… ” e anche “sì, siete venuta a casa…”. “C’era scritto, qualcosa di sbagliato?” “No, era perfetto”..

Non è il caso di raccontare qui quale sia la storia di cui parlava l’articolo, ma era prevedibile allora, nove anni fa (l’articolo è del 2005; e l’autrice, finito l’incontro con i ragazzi, ce ne racconta i particolari) che quel bambino sarebbe, appena ragazzo, entrato in carcere. (“Ho 19 anni, sto in carcere da quasi quattro..”).

Conosciamo bene i tanti destini annunciati che portano i ragazzi in carcere. Sappiamo molto di meno cosa succede una volta che il ragazzo esce dal carcere, come e perché ricomincia dal passato, come se la carcerazione fosse stata una parentesi, oppure, al contrario, come e perché cerca un’altra strada.

Tutto il lavoro che si fa a Nisida consiste nel dare ai ragazzi strumenti di ri-orientamento in maniera che possano scegliere cosa fare di se stessi e della (potenzialmente lunga) vita che hanno davanti.

Quello che ci interessa approfondire, nel corso di questo laboratorio è come, durante la fase punitiva ma a forte impatto-rieducativa del carcere, i ragazzi provano a (ri)costruire nell’immaginario il loro futuro: sotto il segno della (facile) continuità oppure sotto quello della (difficile) discontinuità. Seguendo – dopo la Grammatica e la Sintassi del passato e del presente – il talvolta deciso, spesso incerto, talora ambiguo, mai semplice formarsi del loro alfabeto del ritorno: al passato o al futuro.


la foto è di Ciro Orlandini

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