giovedì 23 aprile 2015

70 volte 25 Aprile



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Aprile è il mese più crudele. Bello, questo verso di Eliot, ma non lo sottoscriverei. Per me, aprile è il mese più bello: per certi cieli limpidi, l’allegria delle ginestre, certi soli di luce trionfante, per i primi papaveri al vento.  Per quel senso di rinascita che sembra circolare nelle vene, dilatare le pupille, allargare il respiro. Ma soprattutto per quel 25 segnato in rosso sul calendario: il giorno della festa della Resistenza e della Liberazione da celebrare come momento privilegiato della ri-fondazione, ovvero della definitiva fondazione dell’Italia.

Amo la storia, la ricostruzione, seria e serena, della complessità degli eventi. La amo, certo, perché non c’è possibile comprensione dell’oggi senza la conoscenza di ieri, perché le radici ti raccontano l’anima profonda degli alberi. Ma anche perché la storia rende facile schierarsi dalla parte giusta.

Se io fossi vissuta all’epoca di Gesù, difficilmente sarei stata tra le donne al suo seguito. Ma secoli e secoli di cristianesimo mi portano a condividere quel suo passaggio terreno come fosse oggi. In modo simile, chissà se avrei saputo, e come, dare una mano ai partigiani nei mesi che portarono alla fine della seconda guerra mondiale. Ma, ora, è semplice, sentire, fin nel profondo dell’essere come fosse la propria stessa reazione, la sobria grandezza di chi ha sacrificato consapevolmente la propria vita perché il Paese avesse un futuro.

A settanta anni da quel 25 aprile, l’Italia sembra avvertire più il peso dei suoi non pochi né lievi problemi che la soddisfazione del cammino fatto. Eppure in quel vento di garofani rossi, in quell’essere una sola cosa col sogno di bene che la terra faceva fiorire dalle sue viscere – a starne a sentire il soffio lieve – c’è lo slancio per trovare, oggi, risposte (per esempio, sull’immigrazione) che, domani e anche dopodomani, possano farci trovare ancora dalla parte di chi ha rinnovato il mondo.

Il primo libro che ho comprato, ovvero il primo che non mi sia stato regalato da piccola, è stato Resistenza e resa di Giorgio Bocca, edito da Laterza. Poi ho letto chili e chili di libri sulla Resistenza. Mi danno un’emozione particolare i versi in cui Pasolini* parla della scelta partigiana del fratello (poi ucciso nelle foibe):

Era un mattino in cui sognava ignara
nei ròsi orizzonti una luce di mare:

ogni filo d'erba come cresciuto a stento
era un filo di quello splendore opaco e immenso.

Venivamo in silenzio per il nascosto argine
lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi

del nostro ultimo sonno in comune nel nudo
granaio tra i campi ch'era il nostro rifugio.

In fondo Casarsa biancheggiva esanime
nel terrore dell'ultimo proclama di Graziani;

e, colpita dal solo contro l'ombra dei monti,
la stazione era vuota: oltre i radi tronchi

dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l'erba
del binario, attendeva il treno per Spilimbergo...

L'ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
dove dentro un libro di Montale era stretta

tra pochi panni, la sua rivoltella,
nel bianco colore dell'aria e della terra.

Le spalle un po' strette dentro la giacchetta
ch'era stata mia, la nuca giovinetta...


*PPP. Ad un ragazzo, La religione del mio tempo, Garzanti






mercoledì 15 aprile 2015

La scatola delle lettere





La voce era troppo allegra per poter annunciare una disgrazia e Francesca respirò forte per addomesticare l’ansia d’uno squillo di telefono inatteso troppo per ora e interlocutore.

Il fatto era – le comunicò Luigi, un lontano cugino – che, in un cassettone tirato fuori per rimodernarlo, aveva trovato un mucchietto di lettere che la comune zia Margherita aveva scritto al marito militare una settantina d’anni prima, anzi di più visto che si concludevano con l’inizio della seconda guerra mondiale.

Lettere belle, d’amore domestico, con tante notizie sui parenti. Magari, lei che scriveva, le potevano interessare. Gliele avrebbe mandate per posta l’indomani.


Da ragazza, Francesca aveva sempre pensato che, un giorno, l’avrebbe scritta la storia della sua famiglia. Raccoglieva particolari sulle vicende dei nonni e aspettava che, crescendo, quel vento confuso che si portava dentro si sarebbe placato in giuste parole.

Più grande, al quel progetto non pensava più. Almeno, quando la mente ci tornava, evitava di soffermarcisi su. Nonostante tutti gli appunti presi, troppo le restava sconosciuto. Avrebbe dovuto saperne cinquemila per scrivere cento cose. Era fatta così. A scuola, sempre voti alti, ma ottenuti con fatica. Quand’era preparata da otto e mezzo poteva spuntare anche il nove, ma nei rari casi in cui era preparata per il sette non rendeva per la sufficienza.

Ogni tanto riguardava gli appunti, le veniva voglia di metterli almeno in chiaro, di lasciarli così per chi sarebbe venuto dopo. Magari, chissà, il nipote di un nipote – se mai avrebbe avuto un nipote – sarebbe potuto tornare indietro di qualche secolo nelle vicende di famiglia, poi si diceva che non era il caso: le memorie valgono per chi ce l’ha già in cuore e, quanto agli scritti, di testi che non valgono niente se ne cade il mondo, inutile aggiungerne altri.

Eppure, ogni volta che – e negli ultimi anni le era capitato spesso – leggeva libri elaborati sulla base di lettere e diari degli avi e delle ave degli autori, le veniva una strizza allo stomaco. Ecco, a lei quello non era dato, perché i suoi avi erano tutti contadini e di lettere e diari neppure a sognarli.


Le lettere arrivarono in una vecchia scatola da stivali, ordinate in mucchietti raccolti in nastrini da bomboniere. Ne aprì una a caso. La grafia rivelava che, chi scriveva, a scuola c’era andata poco, forse fino alla seconda elementare. Gli errori di ortografia non intralciavano il racconto. Chi scriveva, scriveva per dirsi e per dire tutto il loro mondo a chi era lontano, ogni parola era un arco che si tendeva da un’anima all’altra. 

Francesca si fermò a metà del terzo foglietto. Quelle lettere potevano essere la sua piccola miniera. Non era precisamente quello che da piccola avrebbe voluto scrivere ma, a lavorarci un po’, davanti a lei c’era il suo romanzo. 

Si perse nella melodia di questo pensiero solo per un istante, perché si accorse di sentirsi accaldata e di trattenere il respiro. Non era a suo agio. Di più, provava quasi un senso di vergogna come se stesse invadendo un privato che non le apparteneva, come se rimanesse volontariamente ad osservare una nudità che solo per caso le era apparsa davanti. Ripose la lettera nella scatola e trovò per la scatola un posto in fondo all’armadio, dietro i maglioni troppo vecchi per essere indossati, ma che non si sentiva di gettare.