mercoledì 8 aprile 2015

Don Peppino, da 37 anni cuoco a Nisida




don Peppino col presidente Ciampi, Nisida 30 agosto 2002

Alle otto del mattino, un gran pentolone di fagioli sobbolle sul fuoco – sono per stasera, per i ragazzi. In un padellone, verdeggiano, già pronti, gli zucchini trifolati e, in una padella meno grande, sono già cotti gli zucchini con i gamberi. È già pronta la besciamella – è per il primo dei ragazzi, la metto negli zucchini. E sono pronti il latte e il caffè per la colazione. Don Peppino sta imbiondendo una manciata di agli e aperto un bel po’ di buattoni di pelati per la salsa – questa è per la mensa di Sant’Egidio – da versare in un altro grande pentolone.

Oggi è venerdì e, oltre il normale centinaio di pasti quotidiani (a pranzo; più l’ottantina a colazione e a cena), la cucina di Nisida ne sforna un altro centinaio per la mensa dei poveri.

Ma il di più di fatica non turba minimamente don Peppino che – maglietta bianca a maniche corte, grembiule anch’esso bianco – continua ad affrettarsi lentamente. Mescola i legumi, apre le scatole, versa il latte nel termos, dà un ultimo giro di cucchiaio di legno alla besciamella e, intanto, parla con l’aiuto cuoca, saluta l’agente che, infreddolito, viene a chiedere un sorso di caffè, si lascia dare il consueto bacio di buongiorno dall’infermiera, e risponde alle mie domande.

Sono arrivato a Nisida nel 1978. Facevo il rosticciere e il cuoco, lavoravo dalle cinque della mattina alle cinque del pomeriggio. Quando mi hanno chiamato perché c’era un posto di lavoro a Nisida, mi sono preso dei giorni di ferie, perché il mio datore di lavoro non mi voleva far andare via, e sono venuto a fare la prova. Con l’esperienza che avevo, si trattava di una prova facile, l’ho superata subito. Io non volevo accettare perché fuori guadagnavo di più 700-800 mila lire, qui me ne davano 300, ma mia moglie mi ha incoraggiato: Non devi pensare ai soldi, devi pensare prima di tutto a stare bene tu.

Che don Peppino qui stia bene, lo si legge nei suoi occhi piccoli e luminosi, nel sorriso buono, nell’aria di famiglia che tutta questa cucina emana.

Il suo orario di lavoro va dalle 7 alle 13. Anzi: andrebbe. Perché, lui, da Nisida, non se ne va mai prima delle 15.30 e, comunque, mai prima che il direttore abbia finito di mangiare. Quando è morto il padre e noi siamo andati al funerale, lui mi ha detto: Peppino, da oggi ti adotto come padre. Sono parole che non dimenticano.

Un po’per questo, un po’ perché a casa non mi fido proprio di stare, don Peppino continua il suo lavoro: Sono nato nel ‘43, il direttore non mi vuole lasciare, e io non me ne voglio andare.

Di ragazzi, don Peppino ne ha conosciuti migliaia. Parla di Victor, di Vincenzo, di Roberto, ne ricorda i volti, il luogo di nascita, gli atteggiamenti: Sono nato a Pontecorvo e, quand’ero giovane, non ero tanto docile, ne ho fatte anch’io di marachelle, anche se, ringraziando Dio, non ho mai fatto guai. Quando sono arrivato qui, mi sono immedesimato nelle loro storie. Ero giovane, ma più grande di loro e pensavo di fare qualcosa di buono per loro e passando il tempo questo desiderio si è fatto più forte. Alcuni me li sono portati a casa e qualcuno mi ha pure rubato…Stare con i ragazzi, a Nisida mi è servito anche nella mia esperienza di padre. I figli, li ho guardati con occhi particolari e oggi sono orgoglioso dei miei giovanotti. 

Se l’elenco dei ragazzi è infinito, non scherza neppure quello delle personalità importanti che don Peppino ha conosciuto a Nisida. A cominciare da Eduardo e continuando con attori, scrittori, cantanti. E ministri. Tutti quelli, ma non solo, che, in questi anni, si sono succeduti al dicastero della Giustizia. E i presidenti della Repubblica. Napolitano, naturalmente. Ma anche Cossiga, a cui don Peppino tuttora non perdona d’aver rifiutato d’assaggiare l’enorme torta – un rettangolo di bellezza e dolcezza – preparata in suo onore. E Scalfaro che, sottrattosi alla scorta e alle personalità, si chiuse con i ragazzi nel refettorio. Fuori, nel cortile, in tanti andavano avanti e indietro, preoccupati e tesi. E, dentro, tutti i ragazzi accoccolati a terra, su due sedie il presidente e la figlia, Marianna e, in piedi, don Peppino. Tutti, fuori, a chiedersi, molti ad angustiarsi sui possibili temi della conversazione tra ragazzi e presidente e il presidente e i ragazzi ridevano, raccontando barzellette. E Ciampi. Due giorni a preparare il buffet, il presidente che ammira ma dice di non poter accettare; don Peppino che insiste, il presidente che prende mezzo babà e commenta: una meraviglia. 

Non c’è ospite di Nisida che, almeno per un caffè – raffinato; con cremina di panna e zucchero – non sia passato dalla cucina di don Peppino: Il refettorio non esisteva, la cucina stava sotto alla prima sezione. Per distribuire il cibo avevamo un’ape e, a quel tempo si usavano le posate d’acciaio, c’era sempre qualche ragazzo che le infilzava nelle gambe di qualche compagno.

Quando, in seguito al terremoto dell’Ottanta, a Nisida arrivarono anche le donne del carcere di Pozzuoli, i pasti raddoppiarono: 120 (circa) per i ragazzi, altrettanti, se non di più per le donne. E, per dare una mano a don Peppino arrivò a Nisida anche la moglie. 

Lei, ora, si dedica ai nipoti. Lui, continua a cucinare, alternandosi con Ciro e con le aiuto-cuoche. 

C’è una tabella del ministero, che dice che cosa i ragazzi devono mangiare, l’hanno fatta dietologi e psicologi. Noi la rispettiamo, ma cerchiamo pure di assecondare i ragazzi. Tra di loro, le ministre non vanno di moda e, così, quando possiamo, spuntano gli gnocchi, la pasta al forno, la lasagna, i cannelloni. Il segreto è metterci passione. Non è che, perché stiamo in carcere, bisogna fare una sbobba. Diciamo che noi siamo una trattoria casareccia, che facciamo una cucina di casa.

E se il nuovo Presidente della Repubblica viene a visitare Nisida? Lo accoglieremo facendogli onore. E il menù? Non è un problema. Ce l’ho in mente già.




Questo mio ritratto di don Peppino è tratto dal numero di Nisida News intitolato Nisida, ‘o magnà e l’Expo, con cui abbiamo voluto avvicinarci all’evento milanese.

Vi si ritrovano – insieme alla carrellata di storie su “Io sono un panino”, tratte dal libro cui abbiamo lavorato lo scorso anno Parole come pane. La sintassi di Nisida – gli scritti dei ragazzi/e sul loro rapporto con il cibo (piatti preferiti, ricette con cui si misurano). 

Argomento, il cibo, di cui si parla spesso anche nelle nostre aule e non solo nei momenti in cui ci si occupa di educazione alimentare.

“(Si parla, ndr)... Di quello preferito. Di quello che ciascuno sa prepararsi da sé (non ho riscontri, ma, a naso, il numero dei ragazzi di Nisida che dicono di saper cucinare è più alto dei loro coetanei di fuori; e buona parte di chi sa cucinare l’ha appreso dal padre, che, a sua volta, ne aveva fatto esperienza in carcere). Ancora di più, del cibo che i familiari portano nei colloqui del sabato. Prosciutto, cotolette, pollo. Uno dei segni privilegiati del legame con la propria famiglia, della cura che si ricevono da madri e mogli. Beni che vengono condivisi nelle stanze, ricreando il senso, festivo, di casa. E del cibo sognato: ovvero, la vagheggiata, grande abbuffata del ritorno in libertà: la famiglia, gli amici, tutti intorno ad un tavolo pieno di delizie: il banchetto come desiderio, attesa, misura, sogno e concretezza della piena felicità”.

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