giovedì 30 luglio 2015

Si è fatto troppo tardi. Aboliamo il rapporto Svimez






Per alcuni anni, un trentennio fa circa, sono stata presente alla presentazione, a Napoli, del Rapporto Svimez. Mi ricordo l’emozione della prima volta che ascoltai le argomentazioni di Manlio Rossi Doria, ma anche il crescente senso di fastidio per il ripetersi, stagione dopo stagione, di una sorta di rito. Del genere: repetita NON iuvant.

Il rapporto Svimez diffuso oggi certifica lo stato comatoso del Sud Italia (ovvero la pessima salute di una parte di un Paese che non sta complessivamente bene): prende atto, insomma, di ciò che è sotto gli occhi di tutti ed è strabiliante che i dati diffusi siano riportati nei titoli di testa dei giornali e ripresi dai politici quasi come una scoperta inattesa.

Personalmente, mi sono stancata delle lamentazioni sul Sud ricco in fase preunitaria e poi impoverito dall’Unità del paese, dei pianti greci sulla fine del grande meridionalismo, dei dati Svimez che niente tolgono e niente aggiungono davvero allo stato delle cose. Ed anche, un po’, delle analisi del tipo: è la criminalità organizzata che guida la politica meridionale o è la politica meridionale che si appoggia alle varie mafie oppure: è vero o no che i calabresi sono antropologicamente diversi dal resto degli italiani?

Vorrei, piuttosto, che le teste pensanti del Sud (e non solo; ma soprattutto loro) cominciassero a dibattere su come uscire dal coma. Non vuote chiacchiere. Ma strategie, obiettivi, metodi, tempi, vie e prospettive.


(Non mi capita spesso, ma stavolta sono d'accordo con Claudio Velardi: aboliamo il rapporto Svimez http://claudiovelardi.com/2015/07/30/via-il-cnel-e-la-svimez/)

martedì 28 luglio 2015

Il mare colore del vino. Dal vero





Una nuvola rosa, quasi un velo impalpabile dietro cui s’affaccia una luna ormai tonda.
E, sotto, il mare che diventa colore del vino.

Pensavo fosse solo un titolo, poetico, di Sciascia. Invece esiste, è vero.

Poi la nuvola sparisce e il mare di un bel tramonto reggino (meglio: pellarese) torna di color azzurro argento.

Ci sono momenti in cui la bellezza assoluta - divina - attraversa la vita.

sabato 25 luglio 2015

Mandorle nostrane? No. Dalla California






Al supermercato di un grande centro commerciale reggino, ieri mattina, faceva bella mostra di se uno scatolone pieno di mandorle sgusciate. Avevano un buon aspetto. A occhio, mi sembravano ‘mareme, la qualità più reggina che ci sia (e la migliore in assoluto, a gusto mio). Ma le scritte sullo scatolone non lasciavano alcun dubbio sulla provenienza: California, Stati Uniti d’America.


Cinquanta anni fa (circa), le mie estati sapevano di mandorle. Ne ho raccolte chili su chili e altrettante ne ho sbucciate, prima del mallo verde, poi del guscio legnoso. Era un’attività che accumunava più generazioni, dalle albe di luglio alle sere d’autunno.

I fiori di mandorlo, che anticipavano l’estate talvolta (spesso) anche a gennaio, il latte di mandorla, ‘i ‘mmenduli ‘nturrati, gli amaretti, erano patrimonio di tutta un’area del reggino dove gli alberi crescevano anche nei dirupi più seccagni.

Non grandi proprietari di terre, ma piccoli contadini ne producevano più balle (ogni balla equivaleva ad un quintale). Non poco, considerando soprattutto che stiamo parlando delle pastidde, ovvero del frutto commestibile (per un chilo ce ne vogliono sei ancora nel guscio legnoso).

Oggi, da queste parti, di mandorli se ne vedono pochissimi e, al massimo, si sente qualcuno dire: “Ne abbiamo raccolto qualche chilo. Per i dolci di Natale basteranno”.

Non rimpiango il passato (se ci fossimo rimasti dentro, non sarei qui a scriverne). Eppure mi sembra assurdo che siamo riusciti a distruggere buona parte (o tutto?) di quello che, nei secoli, avevamo costruito e che avrebbe potuto essere ( a saperlo far fruttare) ancora ricchezza.