mercoledì 15 luglio 2015

I ragazzi Burgess di Elizabeth Strout







«Che cosa farò, Bob? Non ho più una famiglia.» «Sì che ce l’hai», rispose Bob. «Hai una moglie che ti odia. Tre figli che ce l’hanno a morte con te. Un fratello e una sorella che ti fanno impazzire. E un nipote che una volta era una nullità, ma a quanto pare ultimamente lo è un po’ meno. Questo è ciò che si definisce una famiglia.»

Leggo con notevole ritardo – è stato pubblicato in Italia nel 2013 – I ragazzi Burgess. Ho molto amato il precedente volume della Strout e temevo di rimanere delusa da questo nuovo libro. Che, al contrario, mi è piaciuto molto e mi fatto addirittura chiedere se l’autrice non possa essere considerata la maggiore scrittrice vivente. 

Contrariamente a Olive Kitteridge, il romanzo ha una struttura del tutto tradizionale e, sebbene la tematica affronti problematiche contemporanee (la convivenza post torri gemelle, nella provincia americana, del Meine, degli americani con la comunità somalese), il suo centro è l’analisi (antica) dei rapporti familiari.

Un gesto stupidamente sconsiderato di Zach costringe due fratelli e una sorella (ovvero la madre di Zach e i suoi due fratelli) a ri-incontrarsi. È l’occasione perché, via via, in una narrazione di straordinaria eleganza, emerga come un trauma, avvenuto nella loro infanzia, abbia sotterraneamente condotto le vite Jim, Bob e Susan e abbia inciso profondamente in quella delle loro mogli, mariti, figli. 

La famiglia, per quanto luogo e sede di incomprensioni, ferite e offese, resta per la Strout, il vincolo decisivo e ineliminabile di ciascuno. Ognuno, per l'autrice, è fortemente condizionato da come è stato trattato da piccolo, ma, se muta la narrazione di se stesso, ha ampi margini per modificare effettivamente la propria vita.

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