domenica 18 ottobre 2015

Il Saltozzoppo, la favola nera a lieto fine di Gioacchino Criaco




«Ci giurammo che nessuno avrebbe separato il nostro mondo. E poi arrivò la peste. Il vento nero soffiò forte, scurendo gli usci e spezzando le favole. L’epidemia si annunciò d’estate, con le facce sudate degli operai che piantavano paletti di legno nella terra soffice dei Giardini dell’Allaro e con il volto radioso del proprietario dell’azienda, attorniato da un nugolo di ingegneri e amici: sarebbe arrivato il progresso, una strada avrebbe tagliato i Giardini, la baia e l’intera costa. E, insieme a una moderna superstrada, sarebbero arrivati un’area di servizio e un centro commerciale.

Il viso bello e abbronzato di mio padre si rabbuiò, la sua allegria, le sue battute, le gite, tutto scomparve inghiottito dall’ansia. Nel paese, invece, dilagò il buonumore. Sarebbe arrivata una grande impresa del Nord, lavoro sicuro per tutti e paghe più alte.

Il padrone lo rinvennero morto, dentro la sua macchina crivellata dai pallettoni, prima che le pale meccaniche portassero la ferita innaturale che aprivano nella terra, dentro i Giardini dell’Allaro.
Le campane a morto della chiesa e i cortei funebri si succedettero con cadenza settimanale.

La peste andò dappertutto, girò in lungo e in largo ed entrò in parecchie delle case dei parenti di Agnese. E di quel male nero dovemmo accorgerci anche noi due.»

Il morbo – ovvero l'esplodere della violenza per accaparrarsi l’incipiente progresso,  capitolo nuovo degli odi antichi tra le famiglie dei Dominici, autoctoni abitanti delle rive dell’Allaro e i Therrime premiati con quelle terre per il loro appoggio agli Aragonesi – chiude violentemente l’adolescenza di Julien ed Agnese, giovani amanti di famiglie mai amiche. Anche quando, dopo la grande alluvione «tutti si cercarono un lavoro e buona parte dei figli dei monti finirono a fare i contadini alle dipendenze del padrone che possedeva per intero la vasta pianura che l’Allaro aveva formato, rubando la terra alla montagna. Silvestro Dominici e Alfonso Therrime furono gli unici per cui la corda elastica non poteva rompersi: andarono anch’essi a lavorare a salario, ma dentro continuarono a sentirsi dei proprietari defraudati e alla fine la contesa riprese, con Lupi e Aquile a lottare per il dono dell’Allaro in una guerra che per loro non avrebbe dovuto avere mai fine.»

Nati e vissuti per i primi anni della loro vita lontano dalla Calabria (i padri lavoravano fuori da emigrati, uno in Francia e l’altro a Milano), per Julien ed Agnese bambini la piana dell'Allaro appare come il regno magico d’una natura selvaggia e florida e il luogo delle relazioni calde e affettuose con nonni e parenti. Crescendo, terra e persone dell’Allaro diventano il loro mondo, lo spazio e il senso d’un amore, ostacolato da padri e nonni e sostenuto da madri e nonne per chiudere definitivamente col passato.

Uccisi i due padri dal morbo, i due ragazzi si trasferiscono a Milano. Lei a studiare, lui ospite di una zia. Per poco tempo, perché presto si assume il compito di vendicare la famiglia, accumulando delitti su delitti. Di sé dice che un ‘ndranghetista contro la ‘ndrangheta: non un affiliato in senso proprio, ma un interprete di un codice che, di contro alla purezza di lei, si autoalimenta della parte oscura del cuore suo e dei suoi avi. Seguono due decenni di carcere, che non annullano l’amore tra Julien e Agnese. All’uscita dal carcere, i due vengono coinvolti in una nuova trama criminosa che lega il debole fratello di Agnese, Alberto, alla mafia cinese (e non solo), producendo ancora violenze e non pochi morti.

Ma, alla fine, a prevalere, sarà la resistenza di Agnese: «Lana, seta, canapa, ginestra... la stanza dei telai era un composto di profumi: filati e colori che si mischiavano nell’aria per dare a quel posto un sentore che era solo il nostro. Di donna. Lì dentro avevo saputo e capito tante cose. Lì, le parole delle donne si intrecciavano, costruendo una scala di corda che si arrampicava attraverso gli anni passati, risaliva il tempo di decenni e poi di secoli. Lì avevo compreso quanto erano profonde le radici dell’odio fra i Dominici e i Therrime e quanto sarebbe stato difficile, se non impossibile, che l’amore fra me e Julien non finisse soffocato. Nonna Caterina mi aveva raccontato di molti amori che si erano incrociati fra i Therrime e i Dominici. Nessuno era finito in favola. “Resisti, Agnese.” Donna Vittoria, passandomi accanto per andar via, si fermò un attimo a carezzarmi i capelli; coprì i suoi col fazzolettone turchese e uscì insieme alle altre donne.»

È dalla scelta di vita di Agnese, con la nascita di due fratelli che portano i due nomi tradizionali delle famiglie Dominici e Therrime, Silvestro e Alfonso, che la storia antica comincia a svoltare: «La seta di Agnese ha in parte riempito le nuove piane che si sono formate attorno al fiume, grazie al mio lavoro e al bottino della rapina in Belgio. I Giardini risanati sono di nuovo magnifici, sembrano dispensarci il loro perdono attraverso un rigoglio di germogli, gemme, fioriture. È la mia ninfa l’artefice di tutto, lei ha dipanato fra le dita pazienti e cocciute il suo filo interminabile, proteggendolo con il miele e con la spada: ora che Alfonso e Silvestro sono diventati fratelli, nessuno più si scannerà su questa terra.»

Con Il Saltozoppo, appena pubblicato da Feltrinelli, Gioacchino Criaco continua la sua indagine sul lato oscuro della Calabria, cominciata con Anime nere e proseguita con Zefira e American taste e si conferma come uno dei protagonisti della narrativa contemporanea. Probabilmente il più “moderno” (una modernità che ben conosce anche il passato) e attuale tra i calabresi.

Lo fa, questa volta, con i toni di una favola nera ma a lieto fine, intrecciando accenti lirici (sul paesaggio, sulla lavorazione della seta, sulle feste di paese), vicende antiche dai toni mitici (i due eserciti di Ascruthia e Coraci che attraversano, l'un contro l'altro, le gole d’Aspromonte) e magici (la sposa che, per rifuggire un ingrato matrimonio, in quelle gole si getta da un ponte), analisi psicologiche (Julien, Agnese, Alberto si raccontano in prima persona), e sociologiche (i traffici di droga, l’emergere di gruppi e gruppetti di malaffare operanti all’ombra delle grandi organizzazioni criminali, la sostanziale incomprensione generale della complessità di fatti ed emozioni, di passato e di presente che sostanzia il fenomeno ‘ndrangheta).

Lo fa dando alle donne un ruolo di primo piano nella costruzione del bene, con toni e sfumature del tutto nuovi nella letteratura calabrese.

E lo fa utilizzando una lingua molto duttile, capace di scolpire i luoghi, cantare le tradizioni più belle, raccontare senza fronzoli i fatti, essere pronta ad una rielaborazione filmica. E, soprattutto, riconoscere l’orrore e sognare una normale vita d’amore.


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