lunedì 8 agosto 2016

Il mare di Palizzi di Ada Murolo






«La casa di Palizzi, sul Mar Ionio, costruita alla nascita di Lili, verso la fine del 1925, nei ricordi di Adela era ancora rosa con il fregio azzurro déco e le persiane verde bottiglia. Ampia e solare era esposta a sud. La terrazza si vedeva appena dalla strada. (…) Sulla destra l’occidente, contro cui il cielo mattutino si intravvedeva appena l’Etna dai contorni sbiaditi color cilestrino, la sua mantellina di neve e il tenue pennacchio; ma, al tramonto, sembrava cha al di là del mare l’incendio del sole venisse inghiottito dentro la bocca di fuoco del vulcano, lontano, oltre i tetti di tegole scure e olre la casa della nonna paterna, Doride. Alle spalle della terrazza, il nord con le sue montagne brune, inaccessibili e massicce, le ultime propaggini dell’Aspromonte ricco di faggi, di querce, di felci, capre, scrofe (…). Di fronte alla terrazza, il mare. Il destino geografico di Adela era stato dunque semplice: l’orientamento era elementare, i venti avevano una provenienza certa, e a ogni cosa erano sottesi una logica essenziale e un assetto necessario, come le casa a forma di casa».

Ada Murolo – nata a Palizzi nel 1949, già professoressa di Lettere Classiche, prima a Trieste, poi a Reggio, infine a Roma, dove vive dal 1992 – al suo primo romanzo (nel 2008, aveva pubblicato la raccolta di racconti La città straniera, edita da Città del sole) ricostruisce un mondo, quello della fascia jonica reggina, che emozionerà i lettori calabresi che, avendo superato i cinquanta anni, hanno vissuto, mutata mutandis, gli stessi odori, profumi, colori, sapori, usi, dialetto e sarà, per il resto degli italiani, una grande scoperta: un piccolo paese dell’estrema Calabria come scrigno prezioso del mito assoluto dell’infanzia.

Il mare di Palizzi, edito da Frassinelli, è la saga della famiglia Bruno (il padre Beniamino, figlio di Eduardo e Doride, la moglie Lili, figlia di Agazio e orfana di Costanza, dei loro figli Daddo, Adela, Angelica e Betta). Famiglia benestante, con i suoi riti fissi (i vestiti cuciti dalla sarta Olimpia; i bagni iniziati il 24 giugno, il giorno dopo la “purga” per tutti i bambini; la messa domenicale, sempre allo stesso banco, la visita al cimitero non il 2 ma l’1 novembre, la cena di magro della vigilia di Natale), la sequela di ragazzine di servizio (e il seguito di lavori quotidiani e straordinari, come la lavatura della lana), i legami, appassionati, di Lili col padre e di Lili col marito e di quelli molto più incerti tra suocero e genero; la “distanza” dai più poveri, eppure la generosa apertura della casa quando il “ciclone” del 1952 distrusse anche la scuola delle suore.

E’ Adela a ricostruire le vicende della sua famiglia, le diverse abitazioni, il trasferimento da Palizzi a Reggio, il ritorno della madre a Palizzi, il deteriorarsi fino all’afasia dei suoi rapporti con il fratello, pur molto amato. Lo fa tornando continuamente in Calabria e continuamente immergendosi nella ricerca e nelle memorie del passato. Il libro inizia con lei, divorziata e con una figlia piccola, che da Trieste, dove vive e lavora, arriva a Reggio nel marzo del 1991 e si conclude nel 2009 con una lettera al fratello che, pensata per anni, viene definitivamente maturata nel ritorno a Palizzi del 2008, quando, di fronte alla distruzione che del passato sta facendo la madre (taglio di alberi, vendita di case e terreni), coglie compiutamente chi è e cosa vuole: «Ma Adela non voleva dimenticare, nemmeno adesso che non aveva più bisogno che Daddo capisse. L’appartenenza, per lei, non riguardava più il fratello. La sua appartenenza era la ricostruzione. La sua casa la memoria. Ciò che Lili aveva distrutto, Adela ricostruiva con le parole».

Scrive al fratello al termine di un faticoso ritrovamento di fatti ed emozioni, di immagini e di non-detti, di volti, di paure e di stupori: «ancora oggi mi sorprende un dolore, qualcosa di più forte della nostalgia, quando mi balena nella mente un’immagine fuggevole della Calabria. Ulivi solitari, casupole diroccate con le tegole scure sperdute in mezzo ai campi, gialli come deserti, il pane nel forno a legna, sotto il vecchio fico. (…) Vorrei essere accolta, anche se non conosco la terra e le stagioni, se non so sentire nell’aria l’arrivo degli adorni e il vento di scirocco. Vorrei tornare in patria. Voglio il mare di Palizzi, voglio di nuovo la pioggia e il vento, il fuoco e il latte, l’abito nero e quello bianco, il sonno e l’amore, il bambino e la vita. La morte. Devo essere degna della morte».

La sua riconquista, attraverso le parole, di ciò che è stato, può di nuovo liberare il tempo.
E così, Adela – figlia incompresa e madre imperfetta, incapacità di vivere pienamente il presente – può finalmente liberare l’energia compressa nella fissità al passato, lasciando alla figlia e alla nipotina la libertà di andare verso il futuro. 


Nel giugno del 2013 apparve su Zooumsud questa mia recensione a Il mare di Palizzi di Ada Murolo. Il testo non è più visibile su internet. Per questo, mi sembra opportuno riproporla, dopo aver scritto su questo blog, ma, dopo aver scritto, qualche giorno fa, del suo ultimo volume, Si può tornare indietro.










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