martedì 30 agosto 2016

Microstorie: L'omelia




Adorazione sulla spiaggia di Pellaro*
Era la terza domenica che Teresa partecipava alla messa in quella piccola chiesa, con alle spalle il mare e aperta a oriente su colline di vigne, che bella non era, ma doveva esserla stata, come mostravano le pietre che s’intravvedevano a tratti sotto una spessa mano di calce.

Avrebbe abitato ancora qualche settimana in quel paesetto di campagna dove s’erano rintanata con la più amica che collega Rina (nella casa di lei) per completare la sceneggiatura di una prossima fiction televisiva.

Le domeniche precedenti, Teresa aveva apprezzato il modo di celebrare di don Francesco: sobrio ma non scarno, d’una semplicità non evanescente, lento il giusto, tono pacato, il senso del sacro non sceneggiato, due omelie belle.

Le omelie, Teresa aveva preso l’abitudine di catalogarle per colori: nere, quelle di superficialità intollerabile tanto che, già dopo la prima frase, si metteva un tappo virtuale all’udito e pensava ad altro; marroni, quelle che parevano proclami ideologici e/o politici; grigie, quelle insipide, che niente mettevano e niente toglievano; azzurre, quelle che facevano battere il cuore, ma dopo un po’ non ne restava niente; blu, quelle che, nel tempo, continuavano a parlarle.

Anche questa volta, Teresa s’era preparata bene. Non solo aveva già letto, fin da giovedì, il brano del Vangelo appena proclamato, ma anche alcuni commenti di noti biblisti. Le bastarono poche parole per avvertire come il respiro di chi parlava fosse più vasto e profondo di quanto lei avesse letto. E più sincero.

Man mano che parlava, don Francesco – poco più di quaranta anni, piccolo di statura, il sudore che gli imperlava la fronte, negli occhi un che di infantile che avrebbe conservato anche in vecchiaia – diventava voce. Era come se il suo corpo, la sua fisicità – pur nella concretezza del suo essere lì, sul pulpito, a lato di una brutta statua della Madonna semicoperta da un bel cesto di fiori – venissero assorbiti in ciò che diceva.

Ogni parola pareva lavata in acqua sorgiva e passata nel fuoco di olivi secolari; tagliava nel buio squarci di luce che ferivano e curavano, consolavano e vincolavano, obbligavano e liberavano.

Non è del tutto corretto – si disse Teresa – accumunare il cristianesimo alle religioni del libro, poiché esso è religione della parola (incarnata). Per questo, un prete che fa omelie brutte (sinonimi: banali, false, stiracchiate sulle esigenze di tizio o caio, vuoti esercizi di retorica; astrazioni prive di qualsiasi legame con i dolori e le felicità della vita) è non solo un annunciatore debole del Vangelo ma anche, molto difficilmente, un buon prete.

Considerazioni che non intaccavano il fatto che, mentre don Francesco si faceva voce (incarnava un’altra voce), Teresa diventasse udito che ascoltava. Né lo intaccavano i pensieri che le crescevano a sciami, come api operose ad approntare il miele.

Com’è – si chiedeva – che un uomo sceglie un mestiere in cui la propria realizzazione consiste nello svuotamento di sé?

Immaginò don Francesco bambino buono e ubbidiente, poi adolescente primo della classe, appena un po’ timido e forse solitario, liceale a modo, universitario serio. Chissà se l’idea di farsi prete l’aveva stupito come un’illuminazione inattesa, o gli era lievitata dentro come la pasta di pane che cresce fino a trasbordare. Chissà cosa avevano detto sua madre e suo padre, se s’era mai innamorato (perché, di una donna, un uomo può fare a meno, e viceversa, ma fare a meno dell’idea di una donna, o di un uomo, è molto meno semplice). Qual era la ferita che l’aveva segnato (il dito di Dio sulla sua carne) fino a fargli prendere con gioia (perché c’era gioia, umile ma netta, nel suo sguardo) la via del non appartenersi, dell’essere fratello di tutti, del tutto uguale, ma attraverso un taglio, una separazione, una distanza che rende più vicino ma non annulla lo stacco, ore e ore ad ascoltare gli altri, tutto il tempo ad ascoltare un Altro e l’urgenza di dire continuamente, con le parole, coi fatti, col silenzio?

Teresa uscì dalla messa mezza stordita. S’incamminò sulla strada più lunga per placare il turbinio del cuore che le faceva sentire la distanza tra chi, come lei, credeva, tra dubbi e inquietudini, che il Regno esistesse e chi ne aveva fatto e faceva esperienza vera. Respirava piano la pace dei mutevoli verdi di piante di cui neppure conosceva il nome e l’aria dolce delle mattinate di primavera quando sta per diventare estate. Non sarebbe stato semplice, quella domenica, continuare con Rina i dialoghi della loro fiction.


*Foto tratta da Fb


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