mercoledì 24 agosto 2016

Terremoto




Terremoto, insieme a emigrazione e guerra, è una parola che ha accompagnato tutta la mia infanzia e la mia adolescenza. Quando sono nata, erano passati ben più di quaranta anni dalla tragedia del 1908, ma quel disastro continuava a far parte non della memoria, ma del presente di nonni e prozii: uno spartiacque tra un prima e un dopo che si rinnovava ogni giorno, nel loro continuo discorrere con i morti e le macerie che li abitavano ancora.

In Calabria, negli anni, mi è capitato di vivere questa o quella scossa, nessuna grave, per fortuna. Il mio terremoto devastante l’ho vissuto a Napoli, nel 1980. Quando, dopo ore e ore, riuscii a prendere la linea e chiamare Reggio, dissi d’un fiato: “Siamo vivi”. Non c’era nessuna retorica in quelle due parole affrettate: durante gli interminabili secondi del sisma, avevo pensato che quelli erano gli ultimi istanti della mia vita.

Ad ogni terremoto – insieme al dolore per i morti, alla sofferenza per tante sofferenze, allo struggimento per luoghi che non saranno più come prima, alle domande, dolenti e rabbiose, che sembrano non ottenere risposta, a cominciare da: ma perché continuiamo, ben conoscendo la strutturale fragilità del nostro territorio, a non averne la giusta cura? – torna un tremore antico.

Una consapevolezza, colma di timore. Quando capiterà di nuovo alla mia terra, se succederà durante gli anni della mia vita, vorrei essere qui: a condividerne la sorte.


(Oggi era iniziato, per me, con uno splendido arcobaleno sul mare. Poi ho aperto il computer su una delle nostre più tristi giornate)

Nessun commento:

Posta un commento