martedì 11 ottobre 2016

Il ricamo come autoeducazione liberante?







Un mese fa (precisamente il 9 settembre) ho pubblicato su questo blog una microstoria intitolata Il ricamo d’autunno, nata dal fatto che io stessa avevo iniziato un ricamo.

A ricamare mi hanno insegnato da piccola – il meglio che so fare lo devo a zia Tita – ed è qualcosa cui, nel tempo, sono talvolta tornata, in particolare per oggetti da regalo  e arredi di chiesa. 

Non lo facevo da tanti anni e non è una cosa che m'ero messa tra i programmi dell’autunno; semplicemente, un giorno mi sono avviata al negozio adatto, ho comprato stoffa e fili e ho cominciato seguendo non tanto un disegno già bell’e pronto, ma un’idea da cercare di inverare. 

Il prodotto che sta venendo fuori non può in alcun modo essere considerato un capolavoro in genere e neppure uno dei ricami migliori da me fatti. Una qualsiasi specialista in materia potrebbe stilare un elenco di errori (vistosi) abbastanza corposo.

Eppure, è stato ed è un lavoro che mi ha fatto scoprire e/o mi ha confermato quanto quest’attività (che, immagino, non venga più proposta a nessuna bambina) possa essere preziosa. 

Il respiro si acquieta, anzi, meglio, prende un ritmo vitale (inspirare- espirare in accordo con il battito cardiaco), i pensieri si pacificano, ti ritrovi più a contatto con te stessa, fai anche i conti con la tua ombra ma senza lacerazioni, senza eccessi di paura, ti confronti con tuoi limiti, accettandoli con umiltà e andando, comunque, avanti.

Mi verrebbe da chiedermi, se tante donne del passato – dalle vite ristrette, dagli obblighi familiari e sociali pressanti – non siano rimaste vive anche grazie alle ore in cui hanno ricamato. 

Ore del tutto loro, passate in intimità con se stesse. Ore in qualche modo educanti e liberanti.

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