martedì 1 novembre 2016

Voci del verbo andare di Jenny Erpenbeck: cosa succede quando gli africani arrivano in Germania








«Se si considerano tutti questi possibili confini, la differenza tra un uomo e l’altro appare a Richard davvero irrilevante, e chissà, forse non c’è alcun fossato che si spalanca qui, d’improvviso, all’ingresso di un Centro berlinese per richiedenti asilo, e forse a questo livello dell’universo non ci sono differenze e non ci sono nemmeno le due metà, perché alla fin fine si tratta solo di qualche pigmento in quel materiale che tutti gli uomini, ciascuno nella propria lingua, chiamano pelle, e allora la violenza che giusto qui si manifesta non sarebbe affatto premonitrice di una tempesta che si sta scatenando nel centro di un universo, ma nascerebbe solo da un equivoco assurdo, che spacca in due l’umanità e le impedisce di capire quanto il respiro di un qualsiasi essere umano. Che si indossino pantaloni e giacca facenti parte di una raccolta d’indumenti usati, un pullover di marca, un vestito costoso o uno a buon mercato oppure una divisa con tanto di casco e visiera, sotto gli abiti alla fine siamo sempre nudi, magari – ben che vada – qualche volta ci capiterà di essere stati felici per il sole o per il vento, per la neve o per l’acqua, perché abbiamo mangiato o bevuto qualcosa di buono, perché abbiamo amato qualcuno e ne siamo stati riamati, prima di morire. Ciò che nel mondo cresce e scorre è di gran lunga sufficiente per tutti, eppure – come Richard deduce dalla presenza delle venti camionette – quella che ha luogo lì è, a quanto pare, una lotta per la sopravvivenza. La polizia qui s’impegnerebbe dunque a favore di quei tedeschi talmente poveri che, per festeggiare, possono mettere in tavola solo oche arrosto rubate? Probabilmente no, pensa Richard, perché altrimenti, già da un pezzo, avrebbe dovuto vedere davanti a questa o quell’altra filiale di una banca 20 camionette della polizia e poliziotti armati di tutto punto, che stanno portando fuori i manager colpevoli di malversazione per somme miliardarie. Sì, pensa, quello che accade qui, ricorda il teatro, e teatro lo è davvero – un fronte finto, che ne nasconde un altro, quello che esiste nella realtà. Al segnale convenuto il pubblico reclama le vittime e, al segnale convenuto, i gladiatori portano la loro vita reale nell’arena. Ci si era già dimenticati, e proprio a Berlino, che un confine non si commisurava solo sul formato dell’avversario, ma creava questo stesso avversario? …»

Nato dalla sua personale esperienza di incontro con alcuni immigrati africani in Germania, Voci del verbo andare di Jenny Erpenbeck, pubblicato in Italia da Sellerio, con la traduzione di Ada Vigliani, è un insieme di indagine giornalistica, saggio, romanzo.

Richard, professore emerito di filologia classica – che, dopo la morte della moglie, vive solo, in quella che, nella sua gioventù, era la parte di Berlino appartenente alla Germania est – si trova casualmente ad assistere alle manifestazioni degli immigrati in Oranienplatz. Abituato allo studio e alla ricerca, decide di incontrarli per porre loro delle domande: una sorta di sondaggio per capire da dove vengono, cosa vogliono.

Ne deriva un rapporto forte, in cui scopre le vite di un gruppo di uomini, arrivati in Germania nel 2013, dopo essere sbarcati a Lampedusa: il loro passato, carico di dolore (guerra, fame, l’approdo in Italia con i barconi della morte, il trasferimento in Germania), un presente inutile, senza affetti e senza lavoro, e un futuro troppo incerto per poterlo anche solo immaginare. Imparano l’infinito, il passato e il participio passato dei verbi tedeschi, le tre forme indispensabili per formare i vari tempi, le ripetono decine di volte, seguendo l’insegnante l’etiope, per il verbo andare gehen, ging, gegangen, ma sono come imprigionati in un solo tempo vuoto e immobile.
 
Nel confronto, Richard misura la sua ignoranza (non sa dove si trovano i paesi di provenienza degli uomini che interroga, quali le loro capitali) e la difficoltà di conoscere davvero i suoi interlocutori. E, soprattutto, comprende che le risposte che le singole vite di Rashid, Zair, Khail, Ali, Karon e di tutti gli altri esigono non possono essere delegate alle istituzioni, chiuse negli arzigogoli delle leggi e della burocrazia, ma vanno assunte personalmente. Si prende, quindi, cura, di alcuni di loro, cosa che induce anche alcuni suoi familiari ed amici a fare altrettanto. E, così facendo, cura anche se stesso, le ferite che lui stesso si porta dentro.

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