giovedì 30 marzo 2017

La polemica sulla Grammatica








La polemica contro il donmilanismo – come causa non secondaria se non assoluta della perdita di qualità la qualità della nostra scuola – si è arricchita, la scorsa domenica, di un intervento sulle pagine del Domenicale che ha, a sua volta, prodotto repliche contro il nastrocolismo.

La polemica riguarda complessivamente contenuti e modalità dell’insegnamento, ma un aspetto non piccolo concerne la grammatica: Mastrocola rimprovera alla scuola cattocomunista influenzata da don Milani di aver smesso di insegnare grammatica e sintassi, anzi: la Grammatica e la Sintassi: meglio ancora, sua eccellenza, l’Analisi Logica.

Sull’argomento, questa è la mia esperienza, prima di alunna e poi di docente.

Da studentessa, analisi grammaticale, logica e del periodo mi piacevano, in alcune situazioni mi entusiasmavano, soprattutto quando c’era da trovare la sfumatura particolare della traduzione in o dal latino. Quel montare e smontare le parole, le frasi, è stato, per me, uno strumento potente per abituarmi a riflettere non solo sulla struttura della lingua, ma anche sul valore assoluto della parola: sulla potenza che il più piccolo e insignificante dei termini può assumere quando viene inserito adeguatamente in una frase.

Da insegnante – con i ragazzi e le ragazze di Nisida, dalle competenze molto variegate, con una scolarizzazione spesso solo formale e tassi di analfabetismo funzionale alti, mi è sembrato naturale di non partire mai dalla grammatica.

Di iniziare, piuttosto, da testi scritti. Prima più semplici e via via più complessi. Prima letti da me, poi letti da loro. Sempre belli. Che possano colpire la mente e il cuore, suscitare emozioni. Per imparare, per assorbimento, la pronuncia delle parole, riconoscere il loro suono e la loro grafia, poterle a poco a poco usare in maniera appropriata, sia parlando che scrivendo.

All’inizio non correggo nulla sui testi scritti dai ragazzi, neppure gli errori più macroscopici di ortografia. Poi, quando la loro paura di sbagliare – quella stessa che li porta a rifiutarsi di leggere e di scrivere: Non lo so fare – si attenua, quando loro stessi cominciano a chiedere dove ho sbagliato, inizio a indicare gli errori di ortografia. Per la sintassi, aspetto che l’esercizio della lettura, l’avvio alla scrittura e la maturazione del pensiero li porti a esprimersi in maniera meno ripetuta e contorta, più lineare e corretta.

Durante l’anno scolastico arriva sempre il momento in cui alcuni ragazzi – tirando fuori, con qualche termine appeso nel vuoto, brandelli di reminiscenze scolastiche – chiedono: Perché non facciamo grammatica?

E allora, facciamo grammatica sui libri, racconti, romanzi, poesie, giornali che stiamo leggendo. Ci fermiamo sulle parole, cerchiamo di dargli un nome proprio: aggettivo, preposizione, avverbio.
Mentre le categorie dell’analisi grammaticale tradizionale, pur con alcune difficoltà, risultano complessivamente comprensibili per i ragazzi, l’analisi logica, per rispondere alla sua funzione di analisi della struttura della frase e anello importante del pensiero logico, ha bisogno di semplificazioni. 

Parto dal verbo come motore della frase, cercando di far cogliere ai ragazzi le sue interrelazioni col soggetto e con l’insieme dei complementi: soprattutto cerchiamo di capire perché la frase è strutturata in un modo piuttosto che in un altro, come il suo senso, anche con variazioni minime, cambierebbe.

E non ci scordiamo di giocare con la grammatica e la sintassi, qualche volta in grande, come quando nel nostro Laboratorio di Scrittura, abbiamo realizzato i racconti sulle parti del discorso e sui complementi, raccolti in La Grammatica di Nisida e Parole come Pane - La Sintassi di Nisida.

domenica 26 marzo 2017

La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi






«Presto ho scoperto di essere morta. Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti, senza cedere alla tentazione di voltarsi indietro.»

Che gran bel libro è La notte ha la mia voce, terzo romanzo di Alessandra Sarchi, edito da Einaudi.

Emozionante, coinvolgente, ti resta addosso. E non per la solidarietà che può scattare nei confronti della vicenda, dai forti echi autobiografici, di una giovane donna costretta da un incidente su una sedia a rotelle. 

«Camminare viene prima del pensare, il piede che si stacca e avanza è il gorgoglio di una parola, la premessa di un pensiero: mi sembra così evidente, ora, che camminando non facciamo che scrivere chi siamo. E questa scrittura ripetuta, cancellata, corretta, sempre nuova, traccia la nostra libertà. Non finirà mai lo stupore per come, sollevata da terra, il mio orizzonte si sia abbassato all’altezza delle maniglie, ai pulsanti degli ascensori, l’attenzione costante alle sconnessioni del suolo, ai gradini, alle pendenze che mi fanno ruotare su me stessa e sulla mia impotenza.»

Un libro che segna per la limpida bellezza letteraria di un vero e proprio romanzo di formazione, con la protagonista che si trova a dover imparare un altro modo di stare nel suo corpo e, con il suo nuovo corpo, nel mondo – «   è in un corpo e non altrove che noi conosciamo la vita»: «… a un certo punto ti rendi conto che hai accettato tutto, più o meno. Il tuo corpo, così com’è, non ti desta più la curiosità continua che di solito spinge a osservarsi negli specchi, negli sguardi altrui, visto che siamo qualcosa che non vediamo mai per intero e che non possiamo mai, nemmeno per un istante, smettere di indossare. Ti vedi e ti senti da dentro, nell’indifferenza della materia, come quando in piscina pensi agli organi che galleggiano, avvolti da pellicole di epidermide che l’acqua trapassa. Ma gli altri, invece, continuano a vederti da fuori, dentro il tuo involucro menomato, e a porgerti la loro pena, la loro indifferenza, la loro invariabile distanza. Hai imparato a vedere le cose da un punto di vista ribassato, a convivere con il freddo che ti avvolge, come una coltre di neve perenne, e se ne va solo quando il termometro esterno supera i trenta gradi. Ci stai quasi bene in questo inviluppo organico che manda domande inutili all’universo. Hai imparato a convivere con l’alienazione. Sei una persona capace di desideri, di slanci e cadute, anche così. Gli altri la vedono sempre e solo come una disgrazia che non li tocca. Tu sai che non c’è nessun merito, e nessuna colpa, a stare dentro un corpo che si muove o dentro uno paralizzato. È stato solo il caso a decidere. Anche tu hai camminato con il tuo atavico orgoglio di bipede vertebrato, quando non ne eri nemmeno consapevole. Ma adesso susciti un senso di nudità fastidiosa: nessuno, a pensarci bene, vorrebbe i propri organi galleggiare sparsi. Gli altri non sanno, e continuano a non sapere.»

L’io narrante incontra Giovanna, la Donnagatto, anche lei paralizzata e appassionata di danza, che non intende rinunciare alla vita («L’umanità che si salva, prima di tutto, immagina.»), e cerca libertà: «La libertà interiore è un concetto bellissimo finché lo incontri nei libri, specie in quelli di filosofia, poi però ti rendi conto che la libertà viene sempre da una lotta contro gli altri, contro te stesso, contro gli appetiti e i limiti. I limiti che da ogni parte ti sovrastano. Allora, forse, a pancia piena e desideri saziati, uno può anche dire di sentirsi libero interiormente. Ma, per il resto, di libertà ce n’è sempre poca. E pensarci: tutti rinunciamo alla libertà senza troppe storie quando si tratta di sopravvivere.». « … è di libertà che si dovrebbe parlare, quando si parla di corpi. Ma come si fa, se non ce li scegliamo nemmeno alla nascita? I nostri corpi sono già passato, eredità elargita da chi ci ha generato e preceduto nella tirannia combinatoria dei geni. Passiamo l’intera vita a spiare, cercare di conoscere e curare un involucro che ci rimane in larga parte ignoto e che si deteriora secondo dopo secondo, tradendoci innumerevoli volte, mentre a noi tocca sostenerlo sino alla fine senza mai potercene liberare.»

La Donnagatto, dalla voce incantatrice, argentina e sensuale, consegna alla protagonista del libro il suo segreto (lavora in call center erotico col nome di Veronica) e, prima di allontanarsi dalla sua vita, le lascia anche l’invito ad essere più audace nella scrittura: «Da che ricordavo avevo sempre scritto, per dire che esistevo o che le cose esistevano, in un certo momento e con una certa luce, o un certo gelo, una certa aria che stava tra le persone e lo spazio, i pensieri che le avvolgevano, l’intuizione di una verità tutta diversa da quella che si vedeva. Per far vivere la vita anche dopo che è terminata, oltre i confini che le sono toccati. E ti pare poco? Dovevo andarci a fondo, disse lei. E dunque era così importante? Forse. Certo che lo era, perché mi ostinavo a mentire?»

giovedì 23 marzo 2017

Nel guscio di Ian McEwan








«Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna. Braccia pazientemente conserte ad aspettare, aspettare e chiedermi dentro chi sono, dentro che guaio mi sto per cacciare. Mi si chiudono gli occhi di nostalgia al ricordo di quando fluttuavo libero nel mio sacco opalescente, a spasso dentro la bolla sognante dei miei pensieri, tra capriole al ralenti in un oceano privato, e delicate carambole contro i confini trasparenti della mia prigione, quella membrana sicura che, pur attutendole, vibrava insieme alle voci di cospiratori intenti a una macchinazione odiosa. Succedeva nella spensierata stagione della mia giovinezza. A questo punto, ormai completamente capovolto, con le ginocchia schiacciate al petto e senza alcun margine di movimento, non ho soltanto la testa impegnata ma anche tutti i pensieri. Non ho più scelta, un orecchio è premuto giorno e notte contro le pareti irrorate di sangue. Ascolto, prendo appunti mentali, e mi preoccupo. Tra le lenzuola sento discorsi efferati e mi agghiaccia il terrore di quel che mi aspetta, di quel che potrebbe compromettermi. Immerso nelle astrazioni, posso contare solo sui loro proliferanti legami a catena per crearmi l’illusione di un mondo noto. Sento dire “azzurro”, che non ho mai visto, e immagino un evento mentale non molto lontano da “verde”, che a sua volta non ho mai visto. Mi reputo un innocente, dispensato da obblighi di lealtà e doveri, uno spirito libero, a dispetto dell’esiguità del mio spazio vitale. Nessuno che mi contraddica o rimproveri, nessun nome, nessun precedente indirizzo, niente fede religiosa, niente debiti, nessun nemico. Sulla mia agenda, se ne avessi una, sarebbe segnata unicamente la data della mia incipiente nascita.»

Più di un critico ha osservato che c’è fertile vena di genialità percorre l’ultimo libro di Ian McEwan. 

Nel guscio, infatti, è il monologo di un nascituro che scopre che la madre e lo zio, che sono amanti, intendono far fuori il suo legittimo padre, poeta senza grande pubblico ed editore al limite del fallimento: un uomo di sentimenti e principi, al contrario del fratello, arido arrivista privo di scrupoli.

Osservatore attento di tutte le voci che gli provengono dal mondo e gli consentono di esprimere giudizi non solo sui personaggi a lui più vicini (la madre, il padre, lo zio-amante della madre), ma anche su questo o quel problema mondiale, il non ancora-prossimo nato protagonista è animato da una formidabile voglia di vita – «Quello che mi spaventa è perdermi qualcosa. Che sui tratti di un sano desiderio o di mera ingordigia, prima voglio la mia vita, quanto mi è dovuto, la mia infinitesimale fettina di eternità e una discreta opportunità di coscienza. Mi spetta qualche decennio per sfidare la sorte su un pianeta mulinante a ruota libera. È questo il mio giro in giostra – il Muro della Vita. Voglio la mia corsa.» Continua a riflettere su se stesso, si pone domande sull’amore e il sesso, sul senso dell’esistere e dello stare nel mondo: con il fresco stupore delle domande pensate che precedono addirittura l’uso della parola detta.

Sarà lui a dare una svolta a questo giallo, insieme originale e dagli echi shakespeariani, in maniera che la conclusione ridia ordine agli eventi: «prima il dolore, poi la giustizia e infine il senso. Tutto il resto è caos.»