giovedì 23 marzo 2017

Nel guscio di Ian McEwan








«Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna. Braccia pazientemente conserte ad aspettare, aspettare e chiedermi dentro chi sono, dentro che guaio mi sto per cacciare. Mi si chiudono gli occhi di nostalgia al ricordo di quando fluttuavo libero nel mio sacco opalescente, a spasso dentro la bolla sognante dei miei pensieri, tra capriole al ralenti in un oceano privato, e delicate carambole contro i confini trasparenti della mia prigione, quella membrana sicura che, pur attutendole, vibrava insieme alle voci di cospiratori intenti a una macchinazione odiosa. Succedeva nella spensierata stagione della mia giovinezza. A questo punto, ormai completamente capovolto, con le ginocchia schiacciate al petto e senza alcun margine di movimento, non ho soltanto la testa impegnata ma anche tutti i pensieri. Non ho più scelta, un orecchio è premuto giorno e notte contro le pareti irrorate di sangue. Ascolto, prendo appunti mentali, e mi preoccupo. Tra le lenzuola sento discorsi efferati e mi agghiaccia il terrore di quel che mi aspetta, di quel che potrebbe compromettermi. Immerso nelle astrazioni, posso contare solo sui loro proliferanti legami a catena per crearmi l’illusione di un mondo noto. Sento dire “azzurro”, che non ho mai visto, e immagino un evento mentale non molto lontano da “verde”, che a sua volta non ho mai visto. Mi reputo un innocente, dispensato da obblighi di lealtà e doveri, uno spirito libero, a dispetto dell’esiguità del mio spazio vitale. Nessuno che mi contraddica o rimproveri, nessun nome, nessun precedente indirizzo, niente fede religiosa, niente debiti, nessun nemico. Sulla mia agenda, se ne avessi una, sarebbe segnata unicamente la data della mia incipiente nascita.»

Più di un critico ha osservato che c’è fertile vena di genialità percorre l’ultimo libro di Ian McEwan. 

Nel guscio, infatti, è il monologo di un nascituro che scopre che la madre e lo zio, che sono amanti, intendono far fuori il suo legittimo padre, poeta senza grande pubblico ed editore al limite del fallimento: un uomo di sentimenti e principi, al contrario del fratello, arido arrivista privo di scrupoli.

Osservatore attento di tutte le voci che gli provengono dal mondo e gli consentono di esprimere giudizi non solo sui personaggi a lui più vicini (la madre, il padre, lo zio-amante della madre), ma anche su questo o quel problema mondiale, il non ancora-prossimo nato protagonista è animato da una formidabile voglia di vita – «Quello che mi spaventa è perdermi qualcosa. Che sui tratti di un sano desiderio o di mera ingordigia, prima voglio la mia vita, quanto mi è dovuto, la mia infinitesimale fettina di eternità e una discreta opportunità di coscienza. Mi spetta qualche decennio per sfidare la sorte su un pianeta mulinante a ruota libera. È questo il mio giro in giostra – il Muro della Vita. Voglio la mia corsa.» Continua a riflettere su se stesso, si pone domande sull’amore e il sesso, sul senso dell’esistere e dello stare nel mondo: con il fresco stupore delle domande pensate che precedono addirittura l’uso della parola detta.

Sarà lui a dare una svolta a questo giallo, insieme originale e dagli echi shakespeariani, in maniera che la conclusione ridia ordine agli eventi: «prima il dolore, poi la giustizia e infine il senso. Tutto il resto è caos.»

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