sabato 20 maggio 2017

Istruzioni per distruggere il vento di Daniel Cundari







Cuti è «un rione solcato dalle rughe dei muri sbrecciati simili a quelle di una nonna nei romanzi di Cèline, gli stucchi crollanti sui palazzi nobiliari e sui sampietrini di selce, la forfora dell’infanzia tra pile di balocchi trascurati, trottole, marionette, soldatini di legno e vernici, la ruggine delle biciclette da passeggio lungo i bassifondi di ghiaia, i cadaveri dei sogni infranti con le mani sui tappeti persiani, l’enorme sagoma di mortadella splendente nella vetrina dell’unica bottega, i grani di pepe nero che fuoriuscivano dall’insaccato come foruncoli di blanda dolcezza, la pompa magna delle processioni, il drappo viola con i giacinti e i ciclamini, la coperta cremisi stesa sul loggione, i vapori del caffè, la teiera a forma di cratere in cui avvizzivano le foglie di tiglio, le carte macchiate dall’orzo, la curcuma, le bacche di mirto, gli aromi delle candele al bergamotto, le melanzane imbottite di carne trita, formaggio e peperoni.»

Crescere a Cuti vuol dire assorbire luci, colori, odori, di lancinante bellezza, apprendere storie che nessun’altra esperienza poi vissuta in Italia e nel mondo potrà far dimenticare e diventare depositari di macigni di parole, che bruciano le labbra, tagliano il cuore e affrettano il pensiero, che urge dire, cantare, urlare, in tutta la loro forza immaginifica e in tutta la loro concretezza di carne e sangue. 

Parole per narrare i luoghi – «Sa cos’è la Costa degli Dei? Joppolo, Zambrone, Parghelia le dicono qualcosa? E la Cattolica di Stilo, Gerace, il bizantino, la Riviera dei Cedri, la Grotta del Saraceno a San Nicola Arcella, l’Isola di Dino? O forse lei legge soltanto Lonely Planet sulle spiagge indonesiane di Jimbaran e i mercatini natalizi di Graz. Sa cos’è Rosarno? Sa cos’è un balcone naturale che si affaccia su un mare azzurro lancinante che comprende un territorio immenso e fertilissimo fatto di pianure afflitte da splendidi aranceti e uliveti?» – e il loro respiro: «Il profumo del ripieno sugli scaffali, le noci pestate nel mortaio, l’uva sultanina zuccherata, l’olio di nocciola, la spremuta d’arancio, il mandarinetto, i chiodi di garofano, il vermouth, la cannella, le mani di mia madre impastate di farina e marsala. Come potrei raccontarle l’essenza di questi odori? Come farle comprendere che ogni lettera di queste parole è un pezzo di pelle che va via, un lembo di vita, un infarto eterno? Come potrei penetrare nelle cose, senza dover cercare il termine giusto, la descrizione esatta, il battito inconfessato che si nasconde dietro ogni senso, ogni gioia, ogni dolore?»

Parole per dar voce ai tanti poeti morti suicidi e ormai dimenticati: «Un giorno qualcuno dovrà pur fare i conti con questi macigni di parole. Con chi gettava i propri versi nelle acque argentate dello Stretto o nei golfi scarlatti che sperdono la loro fata Morgan tra le onde mitigate dagli zefiri serali. Lacrime e sangue, sorrisi e carezze, lontano dalle baùtte delle muse bugiarde. (…) E in quel sangue, del sottile filo che univa la vita alla morte, la bellezza al potere all’amore estremo. E in quel sangue martellava la storia di un popolo che negli anni aveva visto cadere le proprie illusioni, la parola scannata dal coltello dell’omertà, il destino di una terra che ogni mattino vomitava nell’alba la miseria dei suoi figli.»

Una ricerca di parole che si autoalimenta «addomesticando il carico di ricordi che pesava sulla mia immaginazione dilatata. Un mantello di metafore copriva la mia schiena dalle insidie dello scirocco, un moto di simboli si aggirava nella mente di un buffone socratico, sdegnoso ma umile, e cominciava senza sosta la dolce tortura della mosca che ho dovuto scacciare, come in questo momento, dal bicchiere. Quanti ricordi, quante cicatrici che forse un giorno il tempo rimarginerà per sempre.»

Istruzioni per distruggere il vento di Daniel Cundari, pubblicato nel 2013 da Rubbettino, è un racconto in prosa a fortissima carica poetica percorso, tutto, da una domanda: «Lei crede davvero che la gente sappia cosa sia la Calabria? Ci pensi su. Me lo domando con apprensione, perché ho bisogno di una risposta a questo dilemma che mi bruca le tempie come un verme scavatore. Lei crede davvero che sia solo un’orgia di morti ammazzati, di preghiere indurite in dialetti indecifrabili pronunciate da analfabeti pronti a vendere l’anima al diavolo per qualche centesimo, una terra fatta di alluvioni, disordini, di bambini rapiti negli esofagi inospitali dell’Aspromonte, di nosocomi vecchi e lasciati allo sbando da politici affaristi? Me lo domando, perché allora non capisco il significato della mia venuta al mondo e di quella dei miei antenati, della rabbia increspata nei sacrifici e negli immensi viaggi intrapresi per sbarcare il lunario e mandare un po’ di spiccioli a casa, a sfamare intere generazioni di ragazzoni pronti a partire in guerra per difender uno Stato che li umilia giorno dopo giorno, senza tregua, senza vergogna. (…) E non si può passare neppure tutto il tempo nella denuncia, così, da soli, su due piedi condannando le apparenze ingannevoli, le maschere assiepate sulle cere di uomini che si credono incredibilmente liberi. Che senso ha vivere? (…) In che luogo cercare la serenità, essere felici, soddisfatti, crearsi un letto in cui morire, una strada per la quale perdersi, un sorriso per cui vale la pena ritornare?»

Parlando ad un anonimo interlocutore, il protagonista lo invita a fermarsi: «Ho una stanza col tetto sul mare, uno scoglio di sogni, una parete ricoperta di stelle, un’idea da incendiare, e un manuale con le istruzioni per distruggere il vento.» E ha tante altre cose da insegnargli: che «anche i calabresi sognano», che «anche nel Paese della menzogna la verità è una malattia.» E, soprattutto, che anche in un mondo in cui «c’è chi si ubriaca di tette e musica neomelodica con la sua lista di amici nei palazzotti del potere, la lirica è stata messa al bando dai minimalisti d’accatto, la gente non sa che pesci pigliare e resta appiccicata ai divani e alle televisioni per ore ed ore» la poesia resta una forza straordinariamente dirompente che può cambiare lo sguardo degli uomini su loro stessi, il mondo e la storia.

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