mercoledì 21 giugno 2017

Mimì Cafiero di Mario La Cava



Mimì Cafiero non è il libro migliore di Mario La Cava, ma ha un particolare che me lo rende particolarmente caro: la protagonista è di Pellaro.

Con questo omaggio al mio quartiere di nascita, mi prendo una pausa dalle recensioni di testi calabresi (a meno che, nel breve, non esca un capolavoro).






«Fra le tante ragazze più o meno belle, più o meno ricche, la scelta cadde sull’amica di Rosina. Stava Lina Montevergine appoggiata al balcone della sua casa in Pellaro, tra i garofani che erano già in piena fioritura, con il corpo snello alquanto scomposto nella posizione che aveva preso, quando passò in carrozzino Mimì Cafiero». 

Piccolo proprietario di terreni, Mimì Cafiero vive a Sbarre, insieme a Ciccio, servo di scarsa intelligenza, «sonnacchioso, triste e fedele come un cane (…) che gli era fratello di sangue, per essere stato suo padre anche il padre di lui con una donna di casa, come tutti sapevano e come una certa rassomiglianza nei tratti dimostrava.»

Passa molto del suo tempo «al Caffè dell’Avvenire, a Reggio, su una piazza che aveva la vista dello Stretto» a discutere con veemenza di fatti giudiziari (il nuovo regime gli sembra troppo duro nei confronti degli uomini di rispetto) soprattutto col suo «amico abituale Peppino Zuccalà», impiegato al Consorzio, e suo sodale come appassionato spettatore del varietà e frequentatore assiduo delle artiste: «donne d’arte (…), donne costose, abituate a spendere molto e a fare spendere.»: «Eravamo in un tempo molto lontano dal presente, alcuni anni dopo la fine della prima guerra mondiale, quando la nazione aveva assunto un aspetto esterno molto ordinato con il governo che era salito al potere. Le apparenze erano molto apprezzate specialmente per ciò che riguardava la morigeratezza dei costumi, e uomini giovani come Mimì Cafiero e Peppino Zuccalà si trovavano a disagio.»

Appena guarito da una malattia venerea, Mimì decide di sposarsi e sceglie la benestante Lina, già fidanzata per anni con un cugino: «No, ella non poteva dire di no a Mimì Cafiero, non solo per fare contenti i genitori, ma per se stessa, per il suo avvenire di donna che non doveva rinunziare alla vita, solo perché aveva avuto una delusione. (…) Egli, invece, illuso di essere stato scelto per la simpatia che aveva ispirato (…) vide nella donna la carne fresca della gioventù e avrebbe voluto assaporarla come un frutto maturo. Il corpo di lei era elegante (…) Belle erano le gambe di Lina, e Mimì non sapeva togliere da esse gli occhi. E i capelli (…) attiravano lo sguardo con i loro ricci naturali, del colore dell’ebano. Su quella bocca (…) si posavano a volte gli occhi di Mimì, che lanciavano fiamme di desiderio. Lina le sentiva, pur senza renderlo palese, e un compiacimento pieno di languore si faceva strada nel suo animo.»

Sebbene turbata dalla nuova casa solitaria, ben diversa da quella «infiorata di Pellaro» e snervata dalla presenza di Ciccio, Lina apprezza «la sua nuova condizione di sposa»: «Fare quello che comunemente si dice sia il dovere di moglie nei rapporti col marito, fu l’occupazione principale di Lina fin dal primo momento. (…) Lina era lusingata di tanto furore, e la notte ansiosamente aspettata, quando si sarebbe messa a letto a fianco del marito, era il coronamento naturale e pur misterioso dei focosi preparativi del giorno.»

Ma la sua richiesta di svaghi, di passeggiate sul Corso reggino, di bagni al Lido infastidiscono Mimì che presto riprende, insieme a quelli coniugali, anche «i piaceri della sua precedente vita da scapolo».
La recrudescenza della malattia venerea porta Mimì alla cecità, condizione che aggrava la sua già serpeggiante gelosia verso una temuta relazione tra Lina e Peppino. Per questo, armando al suo posto il fido Ciccio, fa uccidere Peppino. Dopo una breve carcerazione, Mimì torna nella casa di Sbarre ormai abbandonata sia da Lina che da Ciccio, trovando presto una fine drammatica: «Sentì una smania di incontrare persone, di parlare, di muoversi. Uscì di casa, aiutandosi con un bastoncino ferrato (…) Non passava ora più alcuno nella strada, le Sbarre sembravano morte. Un’aria pura proveniva dal mare in silenzio. Mimì si sentì attratto in quella direzione, senza ricordare più che faceva la strada del mare.»

Primo romanzo scritto da Mario La Cava tra l’ottobre 1947 e il luglio 1948, Mimì Cafiero, ripubblicato da Rubbettino nel 2007, è un testo di impronta neorealista (trae spunto da un fatto di cronaca, noto come “il delitto del cieco”), dal linguaggio asciutto e dai dialoghi veloci, nonché dalla sensibile indagine psicologica dei personaggi.

Anche se il paesaggio appare qui e là nella sua bellezza, tutta la vicenda sembra immersa in una cappa grigia. Ne emerge una Reggio stranamente livida, come sotto effetto di un’eclissi che oscura colori e congela odori mediterranei. Ancora più intensa la chiusura dei protagonisti in un piccolo mondo. Una limitazione di orizzonti legata non alla provincia che, per La Cava – lo si vede nell’insieme delle sue opere (il suo capolavoro resta I fatti di Casignana) – è, letterariamente, tutt’altro che provinciale, ma alla fase storica dell’incipiente fascismo e ad ceto sociale vacuo.

Il protagonista è certo Mimì Cafiero, con la sua ossessione sessuale, la sua volontà di possesso, il suo culto d’una supposta virilità, la sua povertà emozionale e sentimentale – «Per questo mi sono sposato: per comandare in casa mia.», «Ti sei sposata a me, e devi dare conto a me! Per il mio comodo ti ho sposata.» – ma la vicenda è anche quella di un matrimonio «senza altri piaceri e soddisfazioni che quelli comuni del senso.»

Una trama che cresce via via con la tensione di un giallo per un libro che descrive un tempo lontano, ma può parlare al nostro.  


Su Zoomsud sono state pubblicate anche le recensioni di Cattivi maestri di Giacomo Panizza:
e di Caci il brigante di Michele Papalia:

Nessun commento:

Posta un commento