giovedì 21 settembre 2017

Preghiera d'acciaio di Angela Bubba







«“Vieni, il momento è arrivato.” Mi aiutò a imbracciare il fucile, mi spiegò come avrei dovuto inclinarlo senza farlo cadere e come sistemarlo né troppo vicino né troppo lontano dalla clavicola. Mi chiese se avevo capito e io feci rimbalzare il mento in segno d’intesa. Zio Ben indicò il grilletto, mi domandò se ero pronta e se ero convinta di quel che facevo. Quindi lo rassicurai, cercando d’allinearmi su una traiettoria e insieme di non agitarmi. Ero molto serena, anche se non lo sapevo. Mi pose poi una mano sul petto. “Ne ero certo,” affermò seccamente, “hai proprio il cuore di un lupo, come il mio. Ora spara.”»

In una montagna senza nome, una ragazza si esercita a sparare con lo zio, “silenziosamente vivace” eremita e cacciatore, assiduo lettore e narratore di storie.

La ragazza, serrata in un dolore che «non è semplicemente dolore. È qualcos’altro, è una crepa talmente profonda da poterci nascondere un bambino. Perfino io riesco a nascondermi al suo interno, a volte.”», ha un obiettivo preciso. 

«“Devo uccidere un uomo,” dissi. Zio Ben non ribatté nulla. “Voglio uccidere un uomo... E ho bisogno... di quel fucile. Per questo ti ho chiesto di portarmi qui oggi, avevo bisogno di esercitarmi e tu... tu eri l’unico al quale potevo chiederlo.” (…) “Sai che vuol dire porre fine a un’esistenza?” “No, zio Ben.” “Sai che potrebbe essere inutile?” “Io so solo che devo farlo.” “Ci sono cose peggiori che uccidere una persona. Lasciarla in vita e rifiutarsi di amarla può essere ancora più pauroso.” Parlava con voce scorporata, distante. “Da quanto rifletti su tutto questo?” Mi accorsi che aveva finito la sigaretta. Ne accese un’altra. “Da tanto.” “Quanto?” “Un paio d’anni.” “Allora è troppo tardi.” Il fumo mi si spalmava addosso. “Che significa?” Zio Ben finse di non ascoltare. “Che significa?” “Significa che è troppo tardi e io non posso più fermarti. L’hai tenuto troppo dentro di te, gli hai permesso di crescere e stabilizzarsi, abituarsi a te, e tu a lui. Nulla potrà fermarti adesso. Potrei negarti la mia assistenza ma so che raggiungeresti comunque il tuo obiettivo, e lo so perché io e te siamo uguali.” (…) “Ti darò il fucile. Ti darò un solo proiettile.” Il tono adesso era disteso. “In questo modo,” aggiunse zio Ben, “ogni tua azione avrà meno avventatezza e più parsimonia, e prima di essere crudele sarai saggia. Il risparmio è la miglior forma di precisione.”»

Vittima, da piccola, di un medico pedofilo, la ragazza si traferisce in una città, anch’essa senza nome, dove, con altri ragazzi e ragazze che avevano avuto la sua stessa sorte (favorita dalla cecità, non sempre innocente, delle rispettive madri), si prepara a colpire mortalmente il dottor Spina: «Il fucile è qui con me, lo sto guardando. – scrive allo zio – Un meraviglioso insetto privo di vita, una scheggia di meteorite piombata sul mio letto. Ci osserviamo senza far rumore, ci scambiamo promesse. Non provo né protezione né paura ad averlo accanto, solo uno strano senso di condivisione. È come se parlasse la mia stessa lingua. Mi rappacifica, mi colloca in luoghi non ancora raggiunti dal delirio, mi fa sentire libera dalla catastrofe. Sono felice che tu non mi abbia fermato quel giorno, sapevo che non l’avresti fatto. Ti conosco bene. Anch’io sono un sognatore, anch’io sono un figlio del dolore. Ho bisogno di fare quello che sto facendo, sebbene non si tratti di una vendetta, non ci credo nelle vendette. Voglio solo essere consolata in uno dei linguaggi della mia anima, e la mia anima pretende che io faccia questa ricerca, che parli in questo modo. Non so altro. Grazie per aver compreso, per avermi considerata all’altezza dello sconforto e del turbamento, di tutto l’orrore che ho provato in questi anni.»

Accompagnando all’Università una delle altre vittime, la ragazza incontra il prof Bianco che, come già lo zio, le indica la strada della scrittura: «“Secondo me dovresti scrivere un libro.” “Cosa?” Attendevamo sui gradini dell’università, invasi da cicche e mulinelli di cartacce. “Mai scritto nulla finora?” “Altroché se ho scritto.” “Vedi?” “Ma non riesco a trovare la formula giusta.” “Vedi che allora ho ragione?” “Ragione su cosa?” “Sul fatto che dovresti scrivere un libro.” “Perché?” “Perché hai lo sguardo giusto.” “Non so. Ti ho visto e ho pensato che eri sopravvissuta a due o tre apocalissi. Mi hai attratto subito perché ho capito che non avrei potuto insegnarti nulla, nel senso che non avrei potuto influenzarti perché possedevi un’influenza, portavi già un fuoco. Potevo indirizzarti su una strada ma non condurti. Scrivi un libro, ti dico.”»

La ragazza non è certa di potercela fare: «“Come farò a sapere se funzionerà o no?” “Quando avrà rotto tutto ciò che poteva rompere dentro di te. Quando gli permetterai di abbandonarti, ma dopo averti cambiata. Racconta una storia solo se questa riesce a essere un miracolo, una purificazione, un dono. Non è obbligatorio che rivolti il mondo, ma è necessario che lavori nel tuo cuore con tutta la forza del mondo.” (…) “Non è il dolore che si allontana, ma la speranza che si avvicina. Funziona così.” (…) “Cosa siamo allora?” “Scrittori.” “Sì... ma come siamo?” “L’hai detto tu stessa.” “Quando?” “Siamo cacciatori, hai detto poco fa. Siamo feriti.” “Ci contraddistinguono le ferite, allora? Intendevi questo?” Mi guardò un’ultima volta e prese ad allontanarsi. Era sconsolato e attonito, quasi incosciente. “Devi riuscire a passare attraverso la tua ferita superandola.” “Bianco...” “Come un vero guaritore.” “Che significa guarire?” “Guarire significa accettare.” (…) “Alice, bada alla semplice storia! Riponila piano piano dove l’infanzia dei sogni s’infiltra, dentro il mistico arcano della memoria: è il fiore appassito di un paese lontano.” Bianco spiegò le mani in un gesto elegante, un ghirigoro ampolloso ma in realtà molto bello. “Devi solo andare fino in fondo all’infanzia, coi tuoi sogni e con le tue parole.” “Non so se ce la farò.” “Quel paese lontano non è che la verità, e dovrai arrivarci anche tu.”»

Lo zio, per lettera, commenta il confronto tra la nipote e il professore: «Hai un fucile, hai un libro che potresti scrivere, hai una ricerca, hai te stessa. Devi soltanto scegliere, e per scegliere devi sapere ascoltare. Anche se il tuo, il nostro, è un ascolto particolare.»

Otto anni dopo il sorprendente esordio con La casa, e alcuni testi di carattere più saggistico, la ventottenne Angela Bubba pubblica il suo secondo romanzo, Preghiera d’acciaio, Bompiani  editore, in libreria dal 13 settembre.

 Tappa importante nella sua crescita artistica, Preghiera d’acciaio – libro così ricco di dialoghi da poter essere definito un vero e proprio romanzo teatrale –risente molto dell’amatissima Elsa Morante (cui la Bubba ha dedicato un importante saggio, Elsa Morante, madre e fanciullo).

La sua lezione torna nelle pagine del nuovo romanzo di Angela Bubba in particolare nella limpidezza dello stile, nell’originalità della costruzione e nella straordinaria ricchezza lessicale. Nei fitti dialoghi – parole che talora sanno d’ossimori impietosi, quasi bestemmie sacre, – si rivelano e si nascondono personaggi complessi, ognuno dei quali è come retto da un filo spinato che, nel tenerlo in piedi, lo ferisce costantemente: una sorta di sogno doloroso, di preghiera freddamente struggente, di pacata ossessione, che considera la speranza «la cosa più tremenda che possa esistere.»

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