sabato 16 settembre 2017

Un prete di Franco Nirta






«C’è chi dice che a una certa età ci si stanchi di vivere. Sarà vero ma non è il mio caso. Sono vicino ai novanta e ogni giorno mi sveglio contento di essere vivo. Fino a qualche anno fa, appoggiandomi a un bastone, riuscivo ad andare a dir Messa, seppure a fatica. Un giorno, però, mi sono svegliato incapace di mettere un piede giù dal letto e non sono più uscito di casa. Non che questo mi abbia tolto la voglia di vivere. Vivo come la mia età mi consente. Riesco a muovermi da una stanza all’altra, mi siedo quando mi sento stanco, aspetto che mi portino il giornale e leggo con interesse le notizie di un mondo che sono vicino a lasciare ma cui sento ancora di appartenere

Non è uomo di fede e di virtù cristiane don Benigno, il protagonista di Un prete, pungente e asciutto romanzo breve di Franco Nirta, recentemente edito da Rubbettino: «Funzionario di battesimi, matrimoni e morti, scrivano, lettore e all’occorrenza redattore di contratti per i tanti analfabeti, ero però un distratto pastore del mio gregge cui non ho saputo essere vicino nemmeno quando le necessità dei più miseri avrebbero dovuto spingermi a gesti di generosa pietà. Il fatto è che avevo una famiglia numerosa e dare agli altri era sottrarre ai miei.» 

Nato e vissuto in un innominato paese calabrese, non lontano dall’Aspromonte, membro di una famiglia che si trasmette il sacerdozio e il beneficio di una parrocchia da zio a nipote, «fui un lavoratore della vigna del Signore puntuale come un burocrate e come questi senza entusiasmo e senza depressioni. Non era un genere di lavoro in cui affannarmi per garantire la bontà del prodotto. Battezzare era niente più che recitare le parole consuete e versare dell’acqua sul capo di un bimbo piangente; unire in matrimonio era stare a mezzo tra il prete e l’ufficiale dello stato civile, salmodiando e recitando gli articoli del codice. (…) Nemmeno la confessione mi impegnava più di tanto: all’indispensabile manifestazione del proposito di non più peccare seguiva il monito di fuggire le occasioni e, alla fine, l’assoluzione, impartita come automatica, obbligatoria incombenza, senza intima disapprovazione delle vicende peccaminose dei fedeli.»
 
La morte in un incidente del nipote che, destinato al sacerdozio, aveva lasciato il seminario per amore di una ragazza, increspa la quiete burocratica della vita di don Benigno e, insieme al divieto del medico di continuare a celebrare, lo induce a ripensare la sua esistenza in vista di un’ultima confessione, la prima dal momento della sua ordinazione: «Da allora, avendo vissuto senza infamia e senza lode e perciò, dal mio punto di vista, senza commettere peccati, non ne ho sentito la necessità. Quando poi mi capitò di fornicare con donna d’altri, considerai poco serio confessarmi: ero certo che ci sarei ricascato, essendo, come tutti gli uomini, attaccato ai miei vizi più che alle mie virtù.»

Ripercorrendo la sua vita senza slanci, senza passioni, mediocre anche nella colpa, don Benigno tratteggia lo scorrere del tempo collettivo: il primo dopoguerra, quando «le pensioni dei reduci, dei mutilati, degli invalidi e delle vedove dei caduti nella Grande Guerra avevano portato in paese denaro in quantità mai vista prima»; «quella che ci saremmo abituati a chiamare rivoluzione fascista (…) accolta con indifferenza o rassegnato scetticismo»; le prime elezioni, quando «le passioni politiche esplosero come se fino ad allora un tappo le avesse compresse»; l’alluvione del cinquantuno, a causa della quale «in paese restava molta gente cui non era possibile ricominciare. Emigrarono in tanti e il paese tornò a spopolarsi.»

Ricordando i suoi comportamenti, don Benigno si chiede: «Che razza di prete sono stato? Ora posso rispondere che altro è fare il prete, altro esserlo. Io non lo sono stato. (…) Mi era stato affidato un gregge e ho lasciato che le pecore pascolassero senza guida e che si smarrissero senza che mi sentissi obbligato a cercarle. Il prossimo è stato per me solo un occasionale compagno di viaggio che ti racconta i fatti suoi, lo ascolti più o meno distrattamente per non sembrare scortese, poi scendi a una fermata, lui prosegue e a te non importa cosa ti ha detto e dove sia diretto.»

Conseguenza del suo ministero non vissuto come servizio, «ora il mio gregge mi ripaga con la stessa moneta: che io viva o muoia, che stia bene o meale gli è indifferente. Questa casa, che fu il mio rifugio e la mia fortezza, è ora la prigione di un condannato cui nessuno rende visita.»

In tanto piatto grigiume, emerge un filo di speranza: «Celebro Messa da solo nelle mia stanza. Pur incontrandolo ogni giorno e cibandomi di Lui, per l’automatico ripetere i gesti della celebrazione e per la presenza dei fedeli, Lo consideravo presente come me per dovere d’ufficio. Poi ci siamo trovati da soli e ho cominciato a parlargli. Ho bisogno di capire perché taluni fatti che mi hanno visto spettatore o attore indifferente si presentano alla memoria, ci rifletto amaramente e ne provo rimorso

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