venerdì 6 ottobre 2017

Maria ed Elisabetta






Maria va a trovare Elisabetta per aiutarla, esempio della mano da dare a chi ne ha bisogno: così mi hanno insegnato.

Da tempo, mi piace pensarla – forse, sarebbe meglio dire: la sento – in maniera diversa, anche se non opposta.

Maria poi cantata alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio – è una ragazzina che, in momento così straordinario della vita, lascia il suo piccolo mondo e si ritira in una sorta di eremo. Non sola, ma in compagnia d’un’altra donna. Non la madre né una compagna e neppure una del paese, ma una parente più anziana, che sta vivendo un’esperienza simile alla sua.

Una sorta di zia – zia, per i bambini napoletani, è qualsiasi affettuosa amica/conoscente della madre cui si può guardare con senso di affidamento – con cui condividere mesi così fondanti delle loro vite: con cui confidarsi, parlare dei rispettivi mariti, pregare, cucinare, tessere, ridere. 

Maria, magari, sostituisce Elisabetta in quei lavori che la più giovane età e il fisico non ancora appesantito dalla gravidanza avanzata le consentono più facilmente. Ma Elisabetta è, per Maria, lo spazio e il tempo per costruirsi un cuore che non vacilla rispetto al suo mistero.

Me le immagino sedute sotto il portico di un giardino, ombreggiato d’alberi. Filano e si raccontano segreti, mentre Zaccaria attende ai suoi impegni e Giuseppe, che l’ha accompagnata, lavora in qualche bottega da falegname o è tornato a Nazareth, nell’attesa che sia tempo di andare a riprenderla.

Il tramonto scende tranquillo. Maria si alza, rapida, perché il pasto della sera sia pronto all’ora debita. Elisabetta s’attarda ancora su un ultimo giro di fuso. Non hanno bisogno di parole. Si sorridono.

Protettrici, entrambe, delle donne, quando si sostengono tra loro, quando si danno una mano per dare nome e chiarezza ai battiti confusi del cuore. Espressione non banale, anzi sacra, della sorellanza.

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