venerdì 2 febbraio 2018

Noi credevamo di Anna Banti








«Se mi riconosco una patria, essa è piccola, fra due mari, una terra squallida, consolata da monti selvosi, dove la lingua è scura e dolente, e non la intende che chi ci è nato. Quando l’ho lasciata, nel ’62, sapevo che non ci sarei più vissuto, ma non ne ho sofferto. Essa è là, il mio amore per lei la contempla da lontano, eterna e intatta nel passare dei secoli che la sfiorano, indifferenti al suo bene e al suo male: tanti ne ha visti, tanti ne vedrà, senza battere ciglio, il privilegio dei disperati. Me ne sono bandito e non mi curo di morire in Piemonte dove mi sarebbe piaciuto vivere da buon cittadino, e non è stato possibile, un calabrese, qui, è uno straniero malvisto. In questa stanza sono con me esiliati e rinchiusi gli oggetti che ho familiari, superstiti della mia casa di Reggio o portatimi in dote da Marietta: essi convivono, ma, come i nuovi italiani, non fraternizzano.»

Nel 1883, auto isolatosi nella sua casa torinese, Domenico Lopresti – ormai settantenne, «un rudere, un sasso che precipiterà nell’abisso e sarà ridotto in cenere e fango», profondamente amareggiato dal fallimento delle sue speranze politiche («L’idea democratica e repubblicana, il mio antico vangelo, era stata sconfitta») e pervaso da un acre nonsenso esistenziale – racconta a se stesso la propria vita «per riconoscersi e non scendere nella tomba ignoto a se stesso come fu nascendo.»

Gentiluomo calabrese, patriota di convinzioni democratiche e repubblicane, Lopresti conosce, dopo la fallita insurrezione del 1847, il carcere borbonico («Rischiare la morte e soffrire un lungo carcere per l’Italia era stata la mia scelta, la mia personale avventura»), condiviso con personalità di spicco, da Poerio a Castromediano, di idee moderate e liberali: «Le sofferenze, gli spaventi delle continue perquisizioni (si teneva per certo che ancora cospirassimo), gli irragionevoli castighi del puntale e delle legnate, nequizie che affliggevano anche chi non era punito, avevano creato fra noi una fraternità, un affetto inconcepibili fuori dal carcere.»

Liberato dal carcere, «le notizie dell’avanzata di Garibaldi in Sicilia, del suo imminente sbarco in continente, spazzarono via la mia ignavia scoraggiata. L’azione vittoriosa dei Mille, quella specie di miracolo, rimetteva in gioco le carte che erano parse ormai senza valore, i democratici meridionali non avevano detto l’ultima parola e con un po’ di fortuna e di abilità avrebbero potuto rovesciare la situazione politica.»

Con un gruppetto di ribelli, raggiunge la Calabria: da Morano a Castrovillari, a Cosenza («Da una collinetta miravo la città adagiata fra il Busento e il Crati, col suo bel ponte, i campanili, i palazzi: la mia piccola capitale, un centro di vita civile. Lì era morta quella che per me era stata la vera rivoluzione democratica del ‘48.»), a Taverna, a Catanzaro, a Tiriolo, a Chiaravalle, dove rivede la vecchia madre e i parenti. Nonostante la simpatia nei confronti di Garibaldi, è profondamente amareggiato della piega che la spedizione dei Mille va via via prendendo.

Patrioti e popolo sono separati dalla «mentalità privilegiata della mia classe, generosa a parole ma guardinga, anzi scettica quando tratta con lo zappatore e il manovale. Il carcere non basta a purgare certi peccati originali.» E la strategia vincente di Cavour gli sembra segnare definitivamente, per l’Italia, una soluzione monarchico-liberale che non darà giustizia e progresso al Sud: «Il presente era ambiguo, affidato a uomini dalle idee piccine, tanto prevenuti nei confronti del mezzogiorno da distruggere le nostre qualità e profittare dei nostri difetti.»

Convinto di poter comunque fare qualcosa per il proprio paese, accetta la nomina a coordinatore delle nuove amministrazioni comunali. In giro per le città e le campagne, «fui così testimone della prima riviviscenza di quella milizia brigantesca che ora si giustificava con la lealtà verso un sovrano giovane, tradito dai suoi generali e scacciato illegalmente dal trono. Poco ci voleva a fare di un bracciante senza lavoro e senza pane un fuorilegge.»

Promosso a capo delle dogane delle «tre Calabrie», con ufficio prima a Cosenza e poi a Reggio, prova a raggiungere Garibaldi non appena ha notizia che il generale è nuovamente sbarcato dalle parti di Melito. Accusato di tradimento, viene salvato dalla moglie del prefetto di Reggio, che gli dà modo di raggiungere Torino.

Ventuno anni dopo, roso da un sentimento di fallimento politico e di un senso di inutilità esistenziale, il protagonista di Noi credevamo di Anna Banti (scrittrice poco citata, ma tra i maggiori del nostro Novecento), pur sottoponendo al setaccio ogni momento e ogni azione della vita, non riesce a rintracciare «l’errore in cui siamo caduti, l’inganno che abbiamo tessuto senza volerlo.» L’Italia non è quella che aveva sognato e per cui aveva patito carcere ed umiliazioni. E non resta che l’amaro della sconfitta, per l’incapacità di declinare il plurale e i verbi se non al passato: «… eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo…»

Ispirato al nonno paterno dell’autrice, nata Lucia Lopresti (Anna Banti è il suo pseudonimo) e pubblicato per la prima volta nel 1967, Noi credevamo è un romanzo di grande forza e dallo stile asciutto e incisivo, che lascia al lettore molti spunti di riflessione. Mario Martone vi ha tratto molti spunti per il suo omonimo film, in particolare alcune scene della carcerazione a Montefusco, lo Spielberg borbonico.

Noi credevamo è, sì, un libro sul Risorgimento tradito, ma, ancora di più, sulla sconfitta di un nobile ideale incapace, quasi per ancestrale fatalismo, di fare i conti con la realtà e la storia. Il velo di negatività con cui Domenico Lopresti guarda a tutta la sua esperienza di vita, sebbene «da circa mezzo secolo me ne sono divezzato e non ho mai coltivato la religione dei ricordi infantili e di adolescente», lascia un piccolissimo spazio «a qualche lampo di verde e di sole» della Calabria.

Pubblicato su Zoomsud:
 

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